Un anno reale, davvero inventato

Un anno reale, davvero inventato

Ripensi, adesso che è la sera prima di partire, alla partenza dell’anno scorso. Lei, le montagne, la morte, il bombolone lasciato davanti al negozio chiuso per lutto. Malinconia a parte, non sei davvero triste. A questa tavolata di gente che non conosci, di fianco a questi occhi troppo grandi per essere guardati troppo a lungo, stai bene, anche se il doverle raccontare l’ultimo anno in poche parole è faticoso, e fa male. A questa tavolata, in realtà, conosci poco anche lei. Non la vedi da più di dieci anni, come fai a conoscerla?, eppure… pensi che il ricordo di quella bambina ferita, è uno dei pochi rimasti intatti nel tempo, e adesso ritrovi tutto ciò che ricordi nella persona che hai accanto. Quella bambina, ora, è cresciuta e ti fissa con gli stessi occhi di dieci anni fa, si è fatta grande ormai, e più bella, e più forte, ma ti sembra che raccontandole a bassa voce l’ultima annata (cos’è vero?, e cosa falso?), ti sembra di rivedere la stessa ragazzina con il violino sempre sulle spalle, e un’ombra di dolore a corrugare lo sguardo. Ma non il sorriso.

Pensi che sia bello rivedere la stessa dolcezza dopo tanti anni. Non è stata intaccata da niente, eppure anche lei, come tutti, ha sofferto. Nonostante tutto (è incredibile), si mantiene, e ogni volta che torni a guardarla dopo aver distolto lo sguardo dal suo, sguardo che scava senza bruciarti, tornando a guardarla la rivedi bambina, sorridente nonostante gli occhi gonfi dal pianto. Ma le sue lacrime le ha già versate, gli occhi oggi ridono e ti fissa; qualcuno direbbe che ha gli occhi bovini, così grandi e profondi che vorresti poterci guardare dentro tutte le mattine, appena sveglio, per iniziare la giornata nel migliore dei modi immaginabili.

È strano, c’è una tavolata piena di gente e che lei sia a fianco a te, o di fronte, o accanto alla persona di fronte a te, comunque vi ritrovate a parlare, voi due soli. Cercate ogni tanto di guardare altrove, di intervenire nei discorsi per evitare di isolarvi, ma finite per guardarvi, sorridervi, e raccontarvi l’ultimo intenso anno. Capisci subito che è stato duro anche per lei, anche se insiste a fare domande, a farti aprire, forse per evitare di parlare di sé. Però, alla fine, anche se incalza, riesci a chiederle qualcosa tu, E tu, invece?, chiedi, Eh, io.

Ti racconta che anche per lei, come per te, quest’anno finirà ad agosto. Strana coincidenza. Da settembre si ricomincia entrambi, pensi, si chiude un cerchio per aprire qualche altra via. Sai che chiudere certe cose è faticoso, certe cose non si chiudono proprio, fa male provarci come fa male non provarci. Stanno lì, e fanno male. E capisci che fa male anche a lei, adesso, parlare soltanto, perché solo mentre ti racconta il suo, di anno, distoglie lo sguardo e la voce (di solito dolce, ferma), si incrina leggermente.

Alla fine della serata, anche in mezzo alla gente, vi siete detti tutto l’essenziale. Ora sai chi hai davanti, ed è bello, pensi, conservare un ricordo esatto. È bello, pensi, rivederla così come la ricordavi. Ma con la testa sei già alla partenza, al terminal dei traghetti, al viaggio che inizia per finirne un altro, per chiudere anche tu il tuo cerchio, un viaggio pieno di felice malinconia, la senti già, quella strana cosa che ti farà scrivere e scrivere e scrivere, la sua voce nelle orecchie e i suoi occhi in testa. E ti farà scrivere dell’anno passato, forse vero, forse inventato, forse entrambe le cose. E quella strana cosa che è la felice malinconia ti farà scrivere, perché solo scrivere ti permette di fissare eventi, mettere punti e, infine, voltare pagina.


Il traghetto non fa alcuna fatica a procedere controvento, all’alba, in questo mare poco mosso, neppure se carico di gente, di auto, di moto. Quando ti sei imbarcato, hai pensato che forse sarebbe stato meglio non partire, non oggi, non in questo giorno così particolare. Forse, pensi, sarebbe stato meglio partire domani, per rimanere oggi ad attendere un saluto, un segno che sai non sarebbe arrivato. Ma sei partito comunque, da quanto aspetti questo giorno?, e anche se sei solo ci sono due signore a farti compagnia, due vecchiarelle col loro cane, che ora dorme, steso ai tuoi piedi.

È già passato un anno dal giorno in cui, mentre viaggiavi in autostrada con lei accanto, ti è arrivata quella chiamata. Lui è morto, non c’è più, ti era stato detto. Dopo averlo preso per uno scherzo, anzi, sperando che fosse solo lo scherzo idiota di un pessimo amico, dopo pochi secondi hai realizzato che quell’amico non era poi pessimo, e che aveva chiamato subito te, tu per primo, per avvertirti che era morto.

Ricordi il brivido che hai sentito lungo la schiena, le braccia, fino alle dita di mani e piedi. Ricordi le lacrime che, andando a 130 chilometri orari, rischiavano di farti fare un incidente. E ricordi lei, accanto a te, gli occhi umidi come i tuoi perché aveva sentito tutto. No, no, diceva, non è possibile. Ricordi la tua mano destra stretta sul pomello del cambio, strettissima, e ricordi il tocco del suo palmo liscio e caldo sulle tue nocche, bianche per la stretta troppo forte, fredde. Ricordi la canzone che usciva dalle casse, Iron sky, una canzone bellissima che non sei più riuscito ad ascoltare se non una volta, per colpa di una brutta cover di un amico di lei, che hai ascoltato per dovere.

Ricordi la sensazione di non vedere più, la vista sempre più annebbiata, e poi il dolore, il vuoto percepito nonostante il suo abbraccio, il suo calore, la macchina ormai ferma nella corsia di emergenza, lei che ti stringe senza dire una parola, senza neanche lasciarti il tempo di slacciarti la cintura. Ricordi la tua faccia completamente affogata nei suoi capelli, di cui ricordi perfettamente il profumo, il tuo naso incastrato dietro il suo orecchio destro.

Sì, è già passato un anno ma ricordi ancora perfettamente il profumo del suo balsamo. E ricordi quel senso di vuoto, uguale alla sensazione di cadere che si ha, a volte, quando si sogna. Lo senti anche adesso, a ripensare a quel giorno, ai vuoti che ha lasciato, anche adesso che le due vecchiarelle si lamentano di un errore di battitura in un libro che una sta leggendo, Che vergogna, dice, da Einaudi proprio non me l’aspettavo. Ma l’altra la liquida con un gesto della mano mentre tu, in silenzio, scrivi.

Le cuffie che hai nelle orecchie non trasmettono alcun suono. Se ci fosse della musica, una qualsiasi canzone di quelle che ascolti ultimamente, probabilmente piangeresti. Così le tieni spente, anche se la gola è comunque secca e fatica a deglutire, non hai fame e non hai sete, e se non piangi è solo perché loro stanno ridendo, e ti guardano, e a nessuno piace piangere davanti agli sconosciuti, neanche quando si tratta di simpatiche vecchiette.

A una di loro suona il telefono, una piccola allegra scampanellata, una suoneria come tante che a te ricorda quella sera, la sera prima della chiamata in macchina, l’ultima sera, quando le campane non suonarono. Non hai, di solito, una buona memoria, eppure ricordi il momento esatto in cui, sciolto l’abbraccio dopo la telefonata, siete ripartiti per arrivare a casa, e proprio nel cambio dalla quarta alla quinta ricordi di averlo pensato ad alta voce, Ieri, hai detto, le campane non hanno suonato. E anche se voleva dire poco, anche se non credi in quasi niente, in quel momento sapevi che voleva dire tutto. Doveva andare così.

Ricordi il nuovo brivido, la mano di lei sul tuo collo, leggera, per non distrarti troppo alla guida. Ricordi di non aver detto più niente fino all’arrivo a casa, quando ormai era lei a guidare perché tu non ne eri più in grado, non vedevi, non c’eri. Ricordi soltanto che fece un’ottima manovra, e senza dirvi niente siete saliti in casa. Siete stati abbracciati talmente a lungo che il buio che sentivi dentro e attorno, anche se erano appena passate le due del pomeriggio, pian piano è sceso a coprire tutto. Ricordi quelle ore sospese prima che lei se ne andasse, doveva tornare alla sua vita, e nella sua vita tu non c’eri. Quello appena trascorso era stato solo un fine settimana, una parentesi, una parentesi felice ma con uno squarcio in mezzo. Per questo ricordi così bene quella notte, solo, in quella casa vuota.

Ricordi che molte cose le hai già dette, le hai già scritte. E qualcuno, pure, le ha già lette. Ricordi di aver pure inventato qualcosa, o forse tutto, una spruzzata d’invenzione laddove il racconto pareva così realistico da sembrare vero, troppo vero. Per questo tuo nonno ti ha chiesto per messaggio se è davvero successo, quello che hai scritto, proprio così, Quando ti ha dato le chiavi, hai presente?, ti ha chiesto, dimmi, è successo realmente??, proprio così, con due puntini esclamativi, la faccina con la bocca spalancata, e tu ricordi di averci provato a dare una risposta sensata, da mesi ormai aspettavi una domanda simile, però quel discorso solenne che ti eri preparato te lo sei scordato, proprio in quel momento, e hai dovuto improvvisare alcune cose, ma non sai se sei stato convincente o meno.

Vedi, Nonno, gli hai risposto, non è quello il punto, che sia accaduto o no a me poco importa, quello che è importante è che sia accaduto almeno ad una persona, e sono sicuro che ad almeno una persona è accaduto, Credo di aver capito, Se così non fosse, non importa, basta trovare un po’ di piacere nella lettura, tutto qua. Questa è stata la tua risposta. Con qualche balbettio in più, con qualche mmh e un po’ di diciamo nel mezzo, ma quello è il succo. Chissà se ha capito, pensi.

Ricordi che, appena finita la spiegazione, ti è tornato in mente tutto il discorso che avevi preparato mesi prima, le parole esatte e le virgole lì, non là, nel discorso, e pensandoci forse la risposta migliore era quella che avevi improvvisato, senza troppi sofismi, nascondendoti solo il giusto.

È colpa di tuo nonno, quindi, se ripensi alle chiavi. Ricordi che è stato solo uno dei giorni più tristi dell’anno, impossibile fare una classifica. È triste l’incontro per la restituzione, per chiudere dei capitoli che, anche a ricordarli poi, non si riapriranno, ma saranno sempre lì. Pensi a quanti ne hai chiusi quest’anno, perché è vero che le storie non iniziano né finiscono, ma accadono, però quando una storia finisce, quando un capitolo si chiude, se come diceva Tabucchi non finisce niente, è solo perché te lo porti dietro, dentro. Secondo me accade qualcosa e ti rimane appiccicato alla schiena, proprio nel punto cieco in cui le tue braccia non arrivano a mettersi, da sole, la crema solare. E non c’è modo di liberarsene, rassegnati. Per fortuna queste storie sono solo dei racconti… pensa se fossero storie di vita vera. Che annata, ti immagini?

Se pensi che ora sei in viaggio, poi, ricordi l’ultimo viaggio fatto, quello nella città che sognavi da tanto, quella città che hai idealizzato al punto da amarla senza conoscerla, e quando l’hai vista per la prima volta, con lei, non hai potuto far altro che accettarla come quando ad un appuntamento al buio incontri una donna senza averla mai vista davvero, una donna conosciuta via chat. Anche se devi ancora programmare un ritorno, lo sai, sarà sicuramente il prossimo viaggio, l’hai deciso, ma sarà un viaggio doloroso verso una città da sovrascrivere, una città che amerai ancora. E questa volta ti farà anche male.

Ci vorrà tempo per fare l’abitudine alle nuove persone che ti accompagneranno, nel nuovo viaggio e in quella non nuova città, per abituarti al loro passo, al loro sorriso così diverso. Non ti diranno, loro, di stare attento a dove metti i piedi, Attento, è scivoloso, e sicuramente non vi terrete per mano, insomma, la città sarà sempre lei ma tu non sarai più tu. E allora anche lei, la città, sarà diversa, ma brillerà come al solito, le persone continueranno a sorriderti. Però sarà proprio tutto diverso. Ti aggirerai per la città affiancato da altre lei, e anche se saranno gli stessi posti tutto sarà diverso.

Probabilmente ti sembrerà un’altra città, finché non prenderai il traghetto per la riva opposta, il traghetto Fernando Pessoa, per trovare dieci, venti minuti di pace, navigando sul fiume con gli occhi chiusi, la tua mano non più sulla sua gamba, ma sul sedile vuoto accanto a te. Andrai in quel quartiere così lontano da tutto e da tutti alla ricerca di silenzio, sulla sponda del fiume, e alla ricerca di cocci sparsi da raccogliere. Forse troverai anche delle belle conchiglie, dei bei sassi da aggiungere alla collezione. Se sei fortunato, troverai qualche frammento di azulejos, perché quello che avevi non ce l’hai più. Poi, pensi, ti siederai in quello stesso posto dove hai iniziato a scrivere di lei, di quel viaggio con lei, di quei viaggi che avresti voluto fare con lei, e invece scriverai tutta un’altra storia, ambientata in qualche altro altrove che ancora non sai, accompagnato o solo proprio non riesci a immaginarlo e, Che bel viaggio, penserai, nonostante tutto.

Pensando al passato ti ricordi, all’improvviso, del presente. Ti accorgi di essere dove sei, con chi sei, e quello che è stato ormai è stato, le persone con cui sei stato anche loro, ormai, non sono più. Prendi tra le mani questa sabbia fine, argentata, e la lasci scorrere lungo la gamba destra, poco alla volta, come lasci scorrere tutto il resto. Pensi alle tempeste che ti bagnano, e anche se potresti averla letta in qualche Bacio Perugina ti rincuora pensare che anche la peggiori, prima o poi, finiscono. Come quest’annata, un po’ vera, un po’ fittizia, un po’ vissuta e un po’ inventata. Anche quest’anno ti scivolerà addosso, lasciando forse qualche segno sulla pelle, qualche piccolo solco chiaro che non si abbronzerà. Ma quei segni, prima o poi, un giorno, smetteranno di far male.


Ieri sei tornato in dove hai capito, l’anno scorso, di essere un po’ più solo al mondo, un piccolo promontorio a ridosso del mare. Hai preso la tua birra, le cuffie, e la macchina fotografica. Ti era rimasto un solo scatto nel rullino, ma così hai voluto tu. Ricordi di aver pensato di non volere distrazioni. Fermare solo un’immagine e tenere quella, per sempre, tutta per te, a ricordare il momento. Una sola, speriamo esca qualcosa, hai pensato.

Ti sei allontanato un po’ dal gruppo perché in certi casi è la cosa migliore, allontanarsi per restare soli con se stessi, restare soli per capirsi meglio. E ieri, seduto su quella roccia di fronte al sole del tramonto, mentre ti sforzavi di non guardarlo per quanto era grande e bello, un po’ come gli occhi di lei, insomma ieri, osservando la linea dell’orizzonte e la striscia luminosa impressa sul mare dagli ultimi raggi del sole, in quel preciso momento, con Iron sky nelle orecchie, ti sei reso conto di essere molto più solo dell’anno scorso.

Nessuno più a cui poter scrivere “sto tornando, bimba”, “ti aspetto”, nessuno con cui bere un bicchierino di pessimo vino nel retrobottega pieno di tegami e libri, nessuno più ad aspettarti a casa con la cena pronta e le braccia aperte a consolarti per le perdite, a mettere una toppa sui vuoti, nessuno più da inondare di coriandoli per il solo gusto di fare una sorpresa, nessuno, infine, con cui ballare ubriachi alle sagre di paesi in cui nessuno ti conosce.

Eppure, anche se definitivamente solo, le lacrime che hai versato di fronte a quel sole che continuava imperterrito la sua caduta, erano tutte per chi ti aveva fatto lo scherzo più brutto di tutti. Andarsene senza salutare, senza la possibilità di rivedersi mai più, neanche per sbaglio. Nessuna possibilità. Le altre perdite, pensi, come si diceva durante la guerra?, perdite calcolate?, perdite tollerabili?, ecco, sono perdite tollerabili. Dolorose, tristi, ma tollerabili.

Così hai ascoltato alcune canzoni che ascoltavi con lei, e poi altre canzoni che erano solo tue e dell’altra, e hai pianto solo perché ti veniva in mente lui. E mentre pensavi a lui, però, è partita una canzone che non ti eri preparato, una canzone che hai scoperto poco prima di partire e che non riesci a smettere di ascoltare perché mette tutti e tutto insieme, in un grande ingorgo che poi scioglie, e senza troppe parole spiega come stai molto meglio di qualsiasi inutile racconto.

I’ve tried to write
A million other songs, but
Somehow I can’t move on, oh, you’re gone

Takes time, alright
And I know it’s no one’s fault, but
Somehow I can’t move on, oh, you’re gone

Saudade
Saudade

Nothing more that I can say
Says it in a better way

Così, dopo l’ascolto, dopo le ultime lacrime, quando il sole era ormai scomparso da qualche minuto e rimaneva solo un bagliore rosa nel cielo, hai spento il telefono. Ti sei asciugato la faccia cercando di non dare troppo nell’occhio, ti sei tamponato le guance ormai salate con le maniche della maglietta, hai bevuto l’ultimo sorso di birra e, infine, hai sorriso. Come se quell’ultima lacrima, scesa sulla guancia destra per aver strizzato gli occhi, come se quell’ultima canzone, quell’ultimo sorso di birra fossero, insieme, il punto finale di una storia. Il punto finale prima di voltare pagina, e andare oltre.


Pensavo davvero di aver messo un punto finale dopo tutte quelle virgole, di aver voltato pagina, però… c’era ancora una finestra socchiusa, quella finestra che sembra sbarrata e invece è la causa del vento, della corrente che attraversa la casa. Si è richiusa proprio ieri, sbattendo, mentre ero solo, in moto, stavolta davvero io. Giusto il tempo di fermarsi per fare benzina, lontano da tutto, lontano da tutti, e solo, infine solo, ma felice.

Ero felice della camminata, del pranzo sotto agli alberi di castagno a mille metri d’altezza. Ero felice d’aver riso, d’aver mangiato in quella stramba compagnia in cui mai mi sono sentito straniero. Uno come tanti in un grande gruppo di mille persone. Ero felice pure di essermi alzato alle cinque, di aver fatto tre ore di moto per arrivare là. Ed ero felice di doverne fare altre tre prima di tornare dagli amici che mi stavano aspettando. Ero felice, insomma, come si può essere felici nonostante tutti i nonostante. Anche perché pensavo di aver esaurito le virgole necessarie a raccontare un po’ l’anno che è stato e l’anno che mi sono inventato, mischiando realtà e fantasia per staccarlo da me.

Poi, mi sono fermato a fare benzina, mancavano due ore all’arrivo e iniziava a fare buio. Giusto il tempo di prendere il telefono per controllare l’ora, ma non non mi ricordo che ore erano perché, per colpa di quel messaggio, l’ora non l’ho proprio vista. Il nonno ci ha lasciati. Ecco chiuso davvero l’anno. Ora però mancano delle virgole forse non necessarie, ma utili, almeno per me, per accettare e smaltire il peso di quel vuoto che già c’era e che si allarga ancora, sempre di più, attorno a me.

Erano anni che aspettavo questo momento. Tutti dicono che non si dice, eppure tutti lo dicono, in casi simili, Meglio così. L’ho pensato subito, dopo aver letto il messaggio. Lo pensavo da mesi, e pure il messaggio, in qualche modo, era atteso. In realtà, lui c’aveva già lasciato da tempo. Era il suo corpo, ostinato e duro come il marmo che ha spaccato per tutta la vita, era il corpo che si ostinava a resistere.

E nonostante questa notizia, attesa e in parte sperata, il vuoto si allarga, il nero si fa più assoluto, e ci si sente ancora più soli di prima. Dolore stratificato a cui si aggiunge uno strato ulteriore. E quel dolore, quello che non ti fa strappare i capelli ma che ti fa piangere in silenzio, mi ha convinto a prendermi un’ora di riposo, un’ora per fermarmi a bere – che scioglie e distende i nervi, alleggerisce – un’ora per togliere le ragnatele ai ricordi belli in cui lui era comparsa e protagonista. Così mi sono seduto nel primo bar che ho trovato, e mi sono sentito a casa, in qualche modo, perché era un bar di paese, coi nonnini che parlano in dialetto, coi vecchietti che bevono dal mattino alla sera. E in quel bar al centro dell’isola c’ero stato l’anno prima, ma solo in quel momento mi sono accorto che si chiamava Bar Cocco. Ennesime, insensate coincidenze.

Ho bevuto una birra, con calma, mangiando una seadas ricoperta di miele amaro. L’amaro serviva a calmarmi quando le scene di vita passata gonfiavano gli occhi, e quando non bastava neanche l’amaro del corbezzolo osservavo la cameriera, la pelle dorata e i tatuaggi appena visibili, lunghi capelli raccolti in una coda, e soprattutto un volto morbido che sa di lunghe attese. Forse non significa niente, ma solo questo mi veniva in mente quando la guardavo: una lunga attesa.

Avrei avuto voglia di ritrovarla a casa, dopo le ore rimanenti di viaggio, là in attesa ad aspettarmi. Me la sono immaginata proprio così, lei che mi aspetta sveglia per consolarmi, e si sa, quando si è soli, c’è poco che possa soddisfare il nostro bisogno di consolazione. Le ci sarebbe sicuramente riuscita.

Per questo, seduto al bar, ho chiuso gli occhi e mi sono immaginato di sentirla scendere le scale di corsa, una volta entrato in casa. A ripensarci, mi sembra quasi che la scena sia accaduta davvero. Io che entro in casa, lei che corre giù per le scale mentre io le vado incontro, e non fa in tempo a scendere l’ultimo scalino che io sono lì, lei sopra di me ha già le braccia spalancate, e mi stringe il collo mentre io la abbraccio senza stringerla, ancora un gradino sopra di me. Non ho la forza di farne niente, neanche di stringerla nel nostro primo abbraccio. E non mi oppongo neanche quando decide che è l’ora di sciogliere la stretta, anche se vorrei rimanere così per sempre, perché decide di prendermi la testa fra le mani, di chiudere gli occhi come se volesse baciarmi, e poi baciarmi, sulla guancia.

Forse è per questo finale che il sogno sembra vero. La guardo di soppiatto mentre penso a questo sogno. Poi mi accorgo che si sta facendo sempre più tardi, pago e riparto salutando la cameriera e i nonnini con la mano, sfilandogli davanti con la moto. Sono sicuro che non la rivedrò mai più, neanche lei.


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