Le campane non hanno suonato

Le campane non hanno suonato

Le campane non hanno suonato ieri sera. Ci siamo rimasti tutti male, ma quasi me l’ero dimenticato quando mi ha chiamato una voce amica che non sentivo da tempo.

È morto Pierpà, Come è morto? Scherzi?, No Cosimino, purtroppo non scherzo, Ma è uno scherzo del cazzo, ieri eravamo a bere insieme, era felicissimo come non mai, cosa cazzo stai dicendo, Lo so che non ha senso, ma è morto.

Metto giù la chiamata. L’autostrada inizia a perdere la sua forma, oscurata dagli occhi sempre più umidi. Lei è accanto a me, e come me borbotta, scossa e turbata. Stringo fortissimo il pugno sul cambio e lei appoggia dolcemente la sua mano sopra la mia. Mollo la presa, ma gli occhi iniziano a riempirsi sempre di più. Tento di calmare il respiro, il casello è vicino e decidiamo di fermarci più avanti.

Come è morto? Perché? Non ha senso.

Ieri sera, è vero, le campane non hanno suonato. Ora sembra uno stupido scherzo della sorte. Potevo pensare a quella come all’ultima cena? Potevo forse, guardando i suoi occhietti strizzati pieni di gioia, pensare che non l’avrei più rivisto?
Usciamo dall’autostrada e cerchiamo un bar dove riprenderci un attimo. Mi sento svuotato, sento freddo e mi trema la mano sinistra. Al tavolino del bar mi prendo la testa tra le mani. Perché è morto? Che cazzo di senso ha? Lei si accorge di tutto e mi prende dolcemente in un abbraccio che non dimenticherò. Appoggio la mia testa sulla sua spalla e annuso i capelli un po’ scompigliati dalla notizia. Stiamo così, stretti l’uno all’altra, finché non decidiamo di andare a casa mia. Ci vuole il terrazzino, il sigaro, l’alcool, tutti i balsami del cuore ci vorrebbero. E non basterebbero comunque a spiegare l’assurdo, la perdita. E non basterebbero neanche a placare il dolore.

Lei si offre per guidare fino a casa e io non mi oppongo. Sono vuoto, svuotato. Sono un corpo morto, perché l’anima che non trova il senso non è altro che un’anima morta, spenta. E a casa mi abbraccia ancora, mi bacia sulla fronte, mi stringe.

Andiamo sul terrazzo a fumare, a guardare il panorama. Un vento fortissimo scuote tutto mentre avanzano nuvole nere. Dico che sì, dev’essere lui, incazzato per essere stato costretto ad andarsene così, senza motivo, senza preavviso. Brindiamo a lui, fumiamo. Ci godiamo il vento. Eppure niente allevia questo vuoto come la mano di lei che stringe la mia, i suoi capelli sparpagliati dalle folate in cui affondo la testa e che bagno con le mie lacrime. Nessun balsamo cura la perdita, il vuoto, come l’affetto, come l’amore.


Due giorni dopo, lei mi ha accompagnato al bar della stazione all’apertura. Erano le 5.30 e il barista stava portando fuori i tavolini.

«Sono arrivati i bomboloni?» chiesi.

«Certo» rispose il barista, tirando fuori un vassoio da un sacchetto di carta.

Io ne prendo uno alla crema, come faceva lui, lei uno vuoto. Pierpà aveva un modo tutto suo di mangiare il bombolone, per metà raffinato e per metà animalesco: si faceva dare un cucchiaino con cui tamponava la crema che sbrodolava ad ogni morso. Poi addentava tutto come morbosamente, riempiendosi il viso di zucchero e, allo stesso tempo, immergeva il cucchiaino dentro al bombolone svuotandolo per evitare ulteriori danni. Poi si beveva il caffè col mignolino alzato. Un caffè, due caffè… il terzo, prima di andare via, lo offriva la casa.

Allora mi sono mangiato il suo bombolone, ascoltando i discorsi da bar che parlavano solo di lui.

L’hai saputo?, Sì, purtroppo l’ho saputo, che pesata, Sai che era al mare tranquillo a farsi un bagno?, Sì, lo so, una vera merda…

Ascoltavo in silenzio con la speranza di essere invisibile, e di non essere riconosciuto. Stringevo la mascella tra un boccone e l’altro, serravo i pugni e alzavo gli occhi al soffitto per trattenere le lacrime.

E dicono che la sera prima era in Arni a mangiare da amici, stava bene, Sì, era una tradizione recente che gli stava a cuore, Ne parlava sempre, era contentissimo…

«Tu lo conoscevi?» mi chiese il barista, guardandomi.

Tacqui per qualche secondo e, nel silenzio, ricordai la faccia di Pier quella sera, così sorridente, un po’ avvinazzato come me, come tutti, e felice. Respirai profondamente, trattenendo quel poco di lacrime rimaste dalle ore passate. Ma si sa, in certi casi non vogliono finire mai.

«Eravamo amici. Era a cena da me, sabato, sui monti di Arni. Ed era felicissimo» dissi.

«Ah, cazzo» rispose il barista, illuminandosi di colpo. E riprese «ma tu sei quello di Genova?»

«Già.»

Tutti rimasero in silenzio.

«Mi ricordo di te» disse «venivi ogni tanto con lui, sempre a quest’ora. Diceva che facevi il giornalista ma tu negavi sempre, e non ho mai capito il perché.»

«Pierpà era così, mi prendeva in giro. Ma lo scherzo più grosso l’ha fatto domenica, andandosene senza neanche salutare».
Lei era rimasta in silenzio per tutto il tempo. Le avevo chiesto di venire perché da solo, forse, non avrei avuto la forza. E durante quelle chiacchiere ogni tanto mi accarezzava il braccio, la spalla, come a dire che non ero solo. No, da solo non ce l’avrei fatta.

«Me ne dai un altro, per favore?» chiesi, indicando il bombolone rimasto.

«Certo. Che fai, ti mangi anche quello di Pierpà?»

«Sì, circa» risposi, «ma lo porto via».

Pagai congedandomi dal barista con una stretta di mano e uno sguardo triste d’intesa. Entrambi avevamo perso qualcosa di prezioso.

Mi avviai verso la macchina trattenendo invano le lacrime. Ne scese una sulla guancia destra, e poco dopo un’altra più rapida scivolò sulla guancia sinistra raggiungendo la bocca prima dell’altra. Poi guidai in silenzio fino al suo negozio, lei sempre accanto a me. Perdo tempo parcheggiando con precisione dall’altro lato della strada. Il paese è deserto.

«Vuoi andare da solo?» mi chiese lei, preoccupata.

«Sì, stavolta sì.»

Uscii dalla macchina con calma. Attraversai la strada e mi avvicinai alla porta del negozio, rientrata rispetto alle vetrine. In esposizione le sue pentole, le sue padelle, i suoi tegami. Affissa alla porta una scritta fatta a mano recitava CHIUSO PER LUTTO. È l’unica scritta del suo negozio che non riporta la sua straordinaria grafia. Provo a spingere la porta sapendo di trovarla chiusa. Allora tocco un po’ la vetrina, lascio qualche impronta sull’acciaio della maniglia. Poi appoggio a terra il suo ultimo bombolone alla crema.

«Ciao» dico, senza neanche più provare a trattenere il fiume che stavo per versare. Tutte le lacrime venivano da un vuoto ben preciso. Piansi tornando in fretta alla macchina. Mi asciugai le lacrime prima di salire e ripartii.

Sgommai via, come per il tentativo vano di scappare da un vuoto che è dentro di me, e non in quella via, in quel negozio con le luci spente forse per sempre. Da certe cose non si scappa mai. Non si dimenticano, né si può far finta di niente. Certi solchi sono buchi neri con cui devi convivere sapendo che non si richiuderanno. Non c’è margine di miglioramento per certe ferite. Ci si convive, soffrendo, e continuando a vivere.

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