Lisbona, andata e (prima o poi) ritorno

Lisbona, andata e (prima o poi) ritorno

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Lì, su un aereo per Lisbona

Eri già seduto comodo, la cintura allacciata, lei al tuo fianco, quando si sono accesi i motori. Hai immaginato la traiettoria dell’aereo prossimo alla partenza, ma invece di vedere le solite linee curve, le solite parabole da infografiche di telegiornale, hai immaginato un trapezio: una retta obliqua per il decollo, una parallela al terreno per il volo vero e proprio, un’altra linea obliqua per la discesa e l’atterraggio. E quei due punti, la partenza e l’arrivo, collegati tra loro da una linea retta, la più lunga di tutte, la base maggiore del tuo trapezio. Sai di non poter scegliere esempio peggiore per parlare di trapezi visto che, a pensarci bene, gli aerei non viaggiano su binari, e le traiettorie sono davvero curve. Pure la terra, piatta non è, e come può esserlo allora una linea che unisce due punti sulla terra?, ecco, non può. Però nella tua testa le immagini di trapezi sono un po’ ovunque dopo che lei te l’ha buttata lì, quell’idea, Scrivi qualcosa sui trapezi, ti ha detto, Ma come, non è meglio fare qualcosa, non so, sulle figure geometriche in generale?, No, no, ormai sui trapezi, Ma se aggiungessimo almeno un’altra figura, non so, i triangoli, ecco, ho già qualcosa in mente da raccontare sui triangoli, e poi riguarda Genova, E allora no, se è così proprio no, sui trapezi, solo i trapezi. Per questo vedi trapezi ovunque, trapezi che non vedi, a cose normali, e ti senti pazzo ma anche adesso che l’aereo è decollato e lei sorride ne vedi uno, perché noti che il suo labbro superiore è una linea, una base maggiore, e le fossette che si accentuano quando ride sono due linee oblique, e il mento, infine, è la base minore del trapezio del suo volto. Forse la stai fissando, a forza di seguire il tracciato di quelle linee così da vicino, per questo, appena ci pensi, distogli lo sguardo e ti giri per osservare la signora seduta alla tua destra, tutta intenta a fare foto dal piccolo finestrino dell’aereo. Siete già sopra le nuvole, e il panorama toglie il fiato come può toglierlo soltanto da grandi altezze, eppure noti che la sua faccia è quasi schifata, e nonostante lei continui a fare foto a una vista così speciale, la faccia rimane sempre quella, corrucciata in una perenne smorfia di fastidio e schifo insieme. Non sai il perché, ma pensi che la vita deve essere stata proprio crudele se, di fronte a tutto il bello che vedi, la tua faccia è sempre così, deformata, triste. Speri di fare in tempo a farla notare a lei, quella faccia, prima che scompaia, così interrompi i piccoli movimenti circolari che fai col pollice sulla sua gamba destra, e senza voltarti verso di lei le dai una piccola gomitata, come quando i bambini vedono qualcosa di strambo e tentano in tutti i modi di farlo notare agli amichetti, ma senza dare nell’occhio (non riuscendoci mai, tra l’altro), ma tu ormai un po’ di esperienza ce l’hai, e spostando leggermente il braccio le dai una piccola gomitata, senza voltarti, tenendo lo sguardo di fronte a te, fisso, e non fai in tempo ad ammiccare verso la signora che lei, non la signora, si avvicina alla tua guancia per darti un bacio, ma è solo una scusa per sussurrarti qualcosa all’orecchio, L’ho vista, l’ho vista, sarebbe un bel soggetto per una foto, o per un racconto, La foto, rispondi girandoti piano verso di lei, non riesco a fargliela, ma sul racconto possiamo lavorarci, e sarebbe bello lavorarci insieme, Ma non si può, Forse no, non saprei, ho sempre scritto nella mia stanzetta, da solo, però…, Però?, Potrei dare un’idea di partenza, e potremmo svilupparla insieme, Va bene, possiamo provare, Bene, fammici pensare un po’.

Dopo averle detto questo, lei era tornata seduta composta a guardare il sedile di fronte a sé, ma aveva infilato il braccio sottile sotto al tuo, nello spazio lasciato tra il tuo braccio e il bracciolo, e aveva cominciato a leggere un tuo racconto che, gliel’avevi promesso, avrebbe letto soltanto in aereo, una volta partiti. Quel racconto doveva parlare di trapezi, per forza, e di signore con la faccia corrucciata, e per un po’ c’eri eri riuscito, ma solo per qualche pagina, perché alla fine parlava di tutt’altro, come sempre, perché sei molto bravo ad andare fuori tema, e anche quando non vuoi finisci sempre per parlare di te; di te e di chi ti sta attorno; di te e di chi non ti sta attorno più.

Ti sei accorto che aveva finito di leggere quando ha ripiegato i fogli in due, ha stretto il suo corpo al tuo braccio, appoggiato sul bracciolo, e ha chinato la testa sulla tua spalla. Il suo silenzio non ti stupisce. Lei parla poco, e mai d’impeto. Si prende il tempo per ragionare, riflettere, e non per evitare di dire la parola sbagliata, ma per scegliere la parola giusta, che è diverso, e anche dopo aver letto qualcosa di tuo, qualcosa che parla di lei, si prende ore, giorni o settimane per pensarci, e solo quando è pronta, quando ha capito davvero cosa pensa, e cosa vuol dire, solo allora te ne parla. Farà così anche adesso che ha appena finito di leggere, lei chiude gli occhi e non sai quando parlerà di ciò che hai scritto, ma ti basta sapere che un giorno, prima o poi, quando avrà elaborato, ti dirà tutto, nel bene e nel male, e allora sei contento così, contento che legga, almeno lei, e che ti dica tutto quello che pensa, libera, magari passandoti la mano tra i capelli lasciati crescere apposta per sentire quella mano passarci attraverso, come solo lei ha mai fatto con te. Adesso ha di nuovo appoggiato la testa alla tua spalla, e sai che anche se non ti dirà niente, del racconto appena letto, è contenta che tu l’abbia scritto, e questo un po’ aumenta l’eccitazione di essere in viaggio, di nuovo verso la sua città del cuore, che per te è solo la città del sogno, devi ammetterlo. Forse sarà turbata, qualche volta, dalla tua presenza, sicuramente diversa da quella abituale di quella città, ma speri che un giorno, prima o poi, ci farà l’abitudine a quella tua mole, ai tuoi modi, al tuo volerla tenere per mano semplicemente per il piacere di sentirla lì, vicina, giocherellando ciascuno col pollice sul pollice dell’altro, e forse farà l’abitudine a tutto, anche al vederti lì, in quella città che è la sua, a tutti gli effetti sua. Sbirci con la coda dell’occhio il suo viso e noti che tiene gli occhi aperti, leggermente rivolti verso il finestrino che la signora corrucciata ha smesso di fotografare. Noti che la faccia della signora non è cambiata, la smorfia rimane, forse meno accentuata perché la concentrazione del fotografare è venuta meno, ma c’è, e se potessi parlarne liberamente con lei, quella che è poggiata a te, se ne potessi discutere senza farti sentire dall’altra, dalla signora corrucciata, sicuramente provereste a indovinare le ragioni dietro a quella faccia, facendo congetture a partire dai suoi abiti, dai suoi gioielli, e per arrivare a una spiegazione ragionevole ci potreste mettere anche alcune ore, ma prima o poi, sicuramente, raggiungereste una tesi forte, indimostrabile ma difficilmente attaccabile, che vedrebbe la signora corrucciata come la vedova di qualche uomo d’affari, o comunque zitella, chi può dirlo?, non riuscite a parlarne adesso, ma è questo da cui può partire un racconto, l’accrocchio di congetture che danno vita, a un certo punto, a una storia.

Stai ancora pensando a come fare a scrivere una storia a quattro mani quando lei si stacca da te, ti passa la mano sinistra tra i capelli, ti da un bacio sulla guancia e poi inizia a parlarti nell’orecchio, a voce bassissima, per non farsi sentire, Ho qualche idea sulla signora corrucciata, facciamo che io ti dico tutto e poi tu scrivi, a modo tuo, che tanto io non saprei da dove iniziare, va bene?, Sì, certo che va bene, Perfetto, allora iniziamo, secondo me è una donna sposata, anche se quella faccia potrebbe far pensare al contrario, ma così è, senza fronzoli, e sta andando a Barcellona a vedere la bouqueria, e ha quella faccia mentre fotografa perché non sa alzare la luminosità del telefono, ma visto che le rimane anche quando smette di fotografare forse, ma su questo non sono sicura, forse è una donna piena di malinconia. Sentito il suo discorso, percepisci le sue labbra che ti baciano ancora la guancia, e la senti appoggiarsi di nuovo alla tua spalla. Ci pensi su, e per quanto sia assurdo sai che potrebbe avere ragione. Potrebbe essere una donna italiana di mezza età, sposata con un marito assente e anaffettivo come tanti, niente di speciale, donna che a un certo punto decide di farsi dei viaggi per tornare, un po’, a vivere quella vita non vissuta. Così prende treni, autobus e aerei per andare altrove, L’importante è andare, dici sempre tu, anche se lei non può saperlo, e lei va per tentare di ritrovarsi. Infatti adesso è su un aereo per Lisbona, perché nella furia di prendere un biglietto ha pure sbagliato destinazione. Allora, forse, è anche per questo che la faccia rimane corrucciata, anche dopo aver smesso di scattare le foto, dopo aver messo via il telefono, avrà letto Lisbona da qualche parte, finalmente si sarà accorta dell’errore, la faccia corrucciata è per questo, per l’errore, l’avrà letto sullo schermo incastrato nel sedile di fronte a sé, oppure l’avrà sentito nelle tue parole, quando appena prima di decollare hai guardato lei, quella che riposa appoggiata alla tua spalla, e per avere una conferma le hai fatto una domanda semplice, Stiamo andando a Lisbona?, ecco, deve averlo sentito già lì, non ti ricordi quella faccia mentre ti sedevi, salutandola, né quando le hai sfiorato per sbaglio la gamba per sistemare meglio lo zaino sotto al sedile di fronte a te, forse è colpa tua se ha quella faccia, Stiamo andando a Lisbona, davvero?, hai dovuto ripetere perché lei, quella in viaggio con te, sorride, ti guarda senza risponderti, e un po’ ti prende in giro, Boh, chissà. E te lo dice ridendo, poi, perché tu quasi non ci credevi che fosse possibile così, così presto, con lei, a Lisbona. Ci sei già passato in una fase simile, ma solo una volta. Conosci qualcuno e stai bene, ma talmente bene che sogni, viaggi con la mente, tenti di immaginare tutte le cose che potreste fare insieme, e poi, puntualmente, puff, non succedono, e quella persona scompare. Stavolta hai tenuto a bada i sogni, dopo quel puff t i sei calmato. Qualche sogno spunta ancora, soprattutto quando lei è lontana, qualche castello in aria si costruisce da solo nella tua testa, ma hai sognato con parsimonia. E proprio adesso, adesso che sogni modestamente, stavolta, sta succedendo, e vorresti farle capire che sei proprio contento di essere lì con lei, sei contento della tua mano appoggiata sulla sua gamba destra, della sua mano sinistra tra i tuoi capelli, dei suoi baci improvvisi, dei tuoi baci improvvisi. Vorresti dirle tante cose ma sai che non c’è fretta, il viaggio in aereo dura tre ore ma l’altro, di viaggio, speri che duri molto di più. È per questo che dopo averle fatto quelle domande ti senti così leggero, la baci sulle labbra, rapido, e con la mano ancora appoggiata alla sua gamba ti rimetti comodo, chiudi gli occhi, e sorridi al pensiero che spesso il viaggio migliore è quello inaspettato, quello che non hai avuto la fantasia di sognare, quello fatto con una persona che non pensavi di poter vedere lì, seduta accanto a te, lì, su un aereo per Lisbona.

Intermezzo

Non basta una settimana per visitare una capitale. Bastano poche ore, pochi minuti, per innamorarsene. In alcuni casi, non serve neanche andarci, in una città, per amarla. Basta amare i racconti di chi l’ha vissuta, di chi l’ha raccontata, per sognarla come si sogna il bacio mai ricevuto da una bellissima passante.

Non succede spesso, certo, e non può succedere con tutte le città. Una fortunata convergenza di equivoci deve concorrere affinché un uomo o una donna si innamorino così, di una città che non hanno mai visto, di una donna o di un uomo che non hanno mai incontrato. Prima di tutto devono essere città dotate di anima, e se pensate che tutte, in fondo, ce l’abbiano, vi sbagliate. A volte non basta scavare per ore, giorni e mesi se ciò che si cerca, semplicemente, non esiste. Poi, le città dotate di anima devono essere raccontate da qualcuno. E non basta il racconto del nonno o dello zio, che comunque possono essere utili, ma serve il racconto di un narratore vero, uno di quegli esemplari rari di autori capaci di intessere narrazioni magiche, quelle narrazioni che fanno venire la pelle d’oca quando parlano, ad esempio, di un viaggio mai fatto, di un libro mai scritto, di una città mai esistita. Infine, e non è poco, servono lettori che leggano quelle storie. E forse neanche leggerle è sufficiente, perché conta il modo in cui si legge. Non è, come dice qualcuno, questione di leggere tra le righe, ma di sentire i profumi, i rumori, vedere i colori che quelle righe raccontano. Solo così è possibile innamorarsi di una città senza averla mai vista.

La scivolata

Scivoli, su quel marciapiede così caratteristico. Il piede perde la sua stabilità, non fa più attrito, e per una frazione di secondo le tue braccia sventolano alla ricerca di equilibrio. Lei cerca di tenerti per un braccio, e te riesci, in quell’esatta frazione di secondo, a immaginarti le risate dei passanti nel vedere il classico turista che scivola sulla calçada portuguesa, in una tranquilla giornata di sole. È questione di una frazione di secondo, perché dopo pochi centimetri di scivolata il piede si punta su una pietra leggermente più sporgente delle altre, e riesci a tornare nella tua posizione naturale. Lei ti tiene ancora il braccio, stretto, anche se sa meglio di te che non avrebbe assolutamente impedito la caduta, non la tua, anzi, forse sarebbe caduta con te. Ma è una reazione naturale, istintiva, che vuol dire tutto e il suo contrario, un po’ come quando tua nonna inchiodava con la macchina (andava sempre troppo forte, tua nonna), e col braccio destro tentava di proteggerti da un ipotetico impatto contro il cruscotto, anche quando avevi la cintura allacciata. E tu avevi sempre la cintura allacciata.

Dopo quattro giorni a Lisbona, ormai, l’hai capito che dei suoi marciapiedi non ci si può fidare. Neanche a dirlo, quelli in pendenza sono pericolosissimi. Eri appena arrivato quando hai pensato, Cavolo, chissà quando piove com’è camminare in questa città. E se anche dopo quattro giorni non hai visto la pioggia, puoi affermare tranquillamente che questi pavimenti fatti a cubetti sono Lisbona stessa: irregolari per forme e dimensioni, non sono mai piatti, ma con continue depressioni, più o meno grandi. E sono luccicanti, splendenti, sfavillanti al sole. Una magnifica giornata d’estate, soleggiata e ventilata, e Lisbona sfavillava.

Dopo la scivolata siete scoppiati a ridere quando lei ha staccato la presa dal tuo braccio e ti ha parlato, Te l’avevo detto, ti disse sghignazzando. E te lo disse perché pochi minuti prima, per scendere da quella Rua da Saudade dove ti aveva portato, a sorpresa, in un tratto particolarmente ripido di quella via ti aveva avvertito. Ti precedeva e, girandosi, Stai attento, si scivola. Te hai semplicemente sorriso, alleggerito dal pensiero che ci fosse qualcuno che si preoccupava anche di te, e ti sei concentrato nel fare piccoli passi, lenti, fino alla fine della discesa. Poi sono arrivate le strade pianeggianti vicino al fiume, le vie turistiche piene di ristorantini, i negozi di souvenir, ed è lì che hai rischiato, anche se solo per mezzo secondo, di cadere, nel punto meno pericoloso.

Lisbona è come le sue piazze, come i suoi marciapiedi, come le pietruzze squadrate che sei costretto a calpestare per girarla a piedi, rischiando ogni tanto di cadere. È scivolosa, irregolare, sfavillante al sole. E come quei marciapiedi, coi suoi blocchetti martellati a mano uno ad uno, senza l’uso di alcun cemento, così sembra essere stata costruita la città: con calma. La calma di chi ha tempo, la calma di chi ha spazio. Per questo, mentre cammini per una città così particolare, una capitale così anomala, pensi che solo una sia la città che gli assomiglia davvero, eppure è tutta diversa. Qui, se alzi gli occhi verso un qualunque palazzo, anche fuori dal centro, pensi soltanto che sia bello. Qui, se guardi le vecchie case dei pescatori, quelle case del Barreiro dove forse un Monteiro Rossi è riuscito a nascondersi per qualche tempo, se le guardi pensi soltanto che siano belle. Qui, se guardi i marciapiedi, le piazze ricoperte di queste pietre squadrate liscissime e pericolose, pensi soltanto che sia tutto bello. E non solo lo pensi, lo dici ad alta voce, anche adesso, nonostante lei sia lì accanto a te, e non hai paura di farti sentire da lei perché speri che ormai si stia abituando alla tua presenza, alla tua monotonia, a quel modo che hai di ripeterti, un po’ voluto un po’ no, come un disco rotto. La prima a chiamarti così fu la tua professoressa di matematica del liceo, te la ricordi?, e non lo diceva certo col sorriso.

Hai ripreso l’equilibrio, sei riuscito a non cadere, e ora, dopo pochi passi, vi siete ripresi per mano. Pensi che qualcuno potrebbe accusarti di esagerare (ma tanto è un tuo pensiero, mica mio), e sei sincero quando concludi, nella tua testa, che Lisbona è la città perfetta per tenersi per mano. Non glielo dici, questo, ti limiti a pensarlo perché non sai come la prenderebbe. Lisbona, pensi, con tutte quelle salite, quelle discese, con quei marciapiedi che si fanno striminziti per cedere il passo all’Eléctrico, in tutti questi casi e in tanti altri le mani si staccano, si lasciano, riprendono la propria indipendenza per poi ricercarsi, con calma, qualche passo più avanti. E l’hai capito soltanto adesso, dopo così tante mani tenute tra le tue, che il bello di tenersi per mano non è tenersi per mano, ma quell’attimo di ricerca della mano altrui, quell’attimo in cui senti le dita dell’altro aprirsi a cercare la tua, di mano, sfiorarti, prima di perdersi in una strettoia, in una salita che anticipa, con lo staccarsi delle mani, una nuova ricerca. Quanti chilometri per capire una cosa così basilare, pensi, e forse c’entra poco col resto del discorso ma dovevi appuntarlo, tenerne traccia da qualche parte, prima di dimenticartene. Così l’hai fatto adesso, a proposito di Lisbona, la città in cui l’hai capito, a proposito di quella scivolata che non vuol dire niente eppure ti permette di dire tutto.

Le nuvole

Il sole sta tramontando dietro alla collina. Le nuvole, quelle nuvole sparse che sembrano dipinte, creano ogni giorno un panorama differente. Me ne stavo seduto in poltrona, il taccuino in grembo, e non riuscivo a scrivere. Guardavo fuori, ogni tanto, e mi perdevo a guardare quelle nuvole, quel cielo blu dalle sfumature infinite. Volevo raccontare certe cose di quel viaggio appena fatto, eppure non riuscivo a scrivere niente, e non sapevo il perché. Mi ero appuntato mille particolari, alcuni scritti a penna sul taccuino, con calma, altri segnati al volo nelle note del telefono, e i ricordi erano così vivi che avrei potuto descrivere per filo e per segno ogni scena, ogni incontro, ogni passo. Eppure non erano quelle le cose importanti che avrei voluto raccontare. Non certo raccontare per filo e per segno ogni scena, ogni incontro, ogni passo. Solo alcune scene sono veramente importanti, e anche se lo so non sono comunque in grado di scriverne, e non so il perché.

Con la testa ero ancora là. La mia testa era già là prima ancora di arrivarci, e ora che ero riuscito ad andarci davvero, anche se per pochi giorni, forse la mia testa non sarebbe più tornata. Pensavo a questo quando scrissi alla mia compagna di viaggio, Non riesco a scrivere niente, ho la testa tra le nuvole. Lei ci mise poco a rispondere, anche se le sue risposte sembrano suggerite da anni di meditazione e letture filosofiche. E allora perché non scrivi di quelle nuvole?, rispose subito. Qualche vicino deve avermi sentito ridere, Ma certo!, pensai, e iniziai a guardare quelle nuvole che si stavano mano a mano addensando, rendendo il cielo sempre più scuro.

Se dovessi parlare adesso delle nuvole, adesso, direi che mi rattristano, anzi, direi che sembrano rispecchiare esattamente il mio umore. E se il sole si è coperto all’improvviso e perciò diciamo, Il cielo accompagna il mio dolore, siamo degli stupidi, perché in questo esso è di un’imparzialità perfetta, non gioisce per le nostre letizie né s’intristisce per le nostre pene. So benissimo che alle nuvole non frega niente del mio umore, e se ci sono, è perché devono esserci per proprio conto, non per com’è il mio umore adesso, e anche se sembrano rabbuiarsi come mi sto rabbuiando io a pensare ad esempio a quella città così lontana, ormai, oppure a quella compagna di viaggio, anche lei lontana, a loro non frega niente di me. Eppure, le guardo tutto il giorno.

Foto di Chiara Fasano

Lisbona infine

Ti rendi conto che ci sono tante cose di Lisbona di cui non hai ancora parlato. E ci sono tante cose che ancora non hai visto. Devi ammetterlo, è una città che conosci appena. Però… perché sento di conoscerla così bene?, ti chiedi. Riavvolgi il nastro delle giornate trascorse, delle cose viste, e ripensi al quartiere in cui hai dormito per qualche giorno. Ripensi all’appartamento decrepito ma accogliente che, una volta, sicuramente, doveva essere signorile: molte stanze, alti soffitti, bagni ricoperti di marmo. E in quel quartiere, un po’ periferico ma non così malfamato, già al mattino la gente sorrideva. Lo notavi nel tragitto che facevi, ogni mattina, per andare a fare colazione, ogni giorno in una pastelaria diversa, e la gente sorrideva già. Anche lei, è vero, anche lei sorrideva di prima mattina, ma lei sorride sempre. E sorridevano i baristi quando a malapena riuscivano a capire il nostro ordine, i nostri dois espresso e il dolcetto, ogni giorno diverso, indicato col dito premuto contro il vetro del banco-frigo. E anche se eri un turista col cappellino da turista e la camicetta a maniche corte da turista, se anche eri lo stereotipo del turista, riconoscibile a chilometri di distanza, loro sorridevano, e ringraziavano, sempre. Obrigado di qui, obrigada di là. Tu neanche ci sei abituato a tutti questi grazie, neanche tu che ringrazi sempre, come ti hanno insegnato. Pensi che hai scelto di vivere in una città che ci somiglia, a questa, ma è tutta diversa, e la gente non sorride, e la gente non ringrazia. Forse sorridevano, una volta, forse ringraziavano. Oggi no, non sorride e non ringrazia più nessuno.

Pensando a tutta questa gentilezza ti viene un po’ di malinconia, anche se non sei ancora partito. Io, qui, ci potrei vivere, pensi, e l’hai detto una sola volta, nella vita, prima d’ora, ripetendo con la tua scarsa memoria i versi di qualcuno. Qui forse potrei vivere/potrei forse anche scrivere/potrei perfino dire/qui è gentile morire. L’hai detto quando hai vissuto per qualche tempo nella città in cui vivi adesso, quella città che ami ma che, se ci pensi bene, il confronto no, non può vincerlo. Continui a tenerla per mano mentre pensi che se i confronti non si fanno tra i partner avuti (non l’hai mai fatto), allora, non dovrebbe farsi neanche tra le città della tua vita, tra le città che ami. Però poi, alla fin fine, sei umano, sei uno stronzo come tutti gli altri, e i confronti li fai, anche se non vuoi. E li fai, e sei proprio felice di essere lì, a Lisbona, con lei, anzi, senti proprio che lo sei, felice, e il resto non conta.

Illustrazione di Lorenzo Balbo

Lisbona (prima o poi) ritorno

L’aereo del ritorno è appena atterrato e tu, dopo una giornata malinconica, aspetti sotto la pioggia che arrivi l’autobus per tornare a casa. Siete stati entrambi silenziosi, oggi. Malinconia della partenza, tristezza per il rientro. In quei silenzi, però, tu pensavi già al ritorno, non avevi altro in mente, Prima o poi ritorno, pensavi. A dir la verità pensavi anche a tutti i discorsi fatti alla partenza, l’attesa in aeroporto, le risate, la chiamata con i tuoi nonni che, curiosi, hanno chiesto l’altezza della tua compagna di viaggio. E poi l’osservazione dei viaggiatori per indovinare, per gioco, le loro vite. Hai pensato a quelle risate che adesso sono come sospese, in pausa. Non che siate tristi, no, siete in pausa anche voi, e anche se rivedeste un’altra volta quella strana signora d’altri tempi che avete visto alla partenza, quella stravaccata sulle sedie della sala d’attesa, col suo grande maglione rosso, proprio quella che avete fotografato di soppiatto, facendo finta di guardare insieme il telefono, se anche la rivedeste adesso, quella signora, non avreste molte idee per crearle attorno una storia, per fotografarla, per ridere e scherzare assieme. E tu, ora, pensi al futuro ritorno.

Adesso che lei sta dormendo, in questo tragitto in autobus di un’ora scarsa, tu chiudi gli occhi e non riesci a dormire. Vedi te stesso in procinto di partire, di nuovo per quella città, ti guardi intorno, nel sogno, e vedi che c’è ancora lei, accanto a te, Speriamo, pensi, e lo zaino che hai sulle spalle è lo stesso, e pure i vestiti sono gli stessi di adesso. A guardarti bene, sembra che non sia passato neanche un giorno, è questo che vorresti, no?, ripartire, stabilirti là, capire com’è viverla, quella città, anche domani, anche subito.

Ma non è così che funziona la vita, oggi. Un boccone di vita qui, un boccone di vita là, poi pausa. Piccoli bocconi misurati, contenuti, sporadici, e poi schnell!, di corsa, si torna all’ovile. Se ne hai uno. Non riesci a dormire perché sai che non puoi tornare domani a Lisbona, anche se vorresti, e non sai bene quando tornerai. Hai gli occhi chiusi e sei molto stanco, ma non dormi perché un pensiero ti disturba, un pensiero ricorrente e comune, anzi banale, In questa vita non puoi fare ciò che vuoi, pensi. E anche se sei fortunato, un privilegiato ti dice qualcuno, a volte non ti basta. Ti maledici, a volte, perché non ti basta.

La guardi mentre dorme e noti che è proprio in pace, Forse, pensi, forse sta sognando anche lei il prossimo viaggio, il ritorno. Forse è in pace perché sa che, prima o poi, ci tornerà, non importa quando, non importa se con o senza di te, lei sa che prima o poi ci torna sempre. Cerchi di rilassarti ripensando a tutte le volte che l’hai detto, Tanto, prima o poi, ritorno, e in effetti ogni volta che l’hai detto, per altre mete, sei sempre ritornato. Allora ti tranquillizzi, la guardi ancora una volta mentre dorme, così, in pace, e chiudendo gli occhi sussurri, Prima o poi, prima o poi ritorno.

E invece puff.


Siete stati coraggiosi a leggere fino a qui.
Spero di non avervi annoiato troppo.

Ricordatevi: questo è un racconto.
Qualcosa è reale, qualcosa è inventato.
E non è mai questo il punto.

Sarebbe bello sentire cosa ne pensate.
Sentitevi liberi di scrivermi, ovunque.


Una risposta a “Lisbona, andata e (prima o poi) ritorno”

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