Una nuova edizione del romanzo d’esordio di Nick Cave, con la nuova traduzione di Francesca Pe’, offre il libro a nuovi lettori, nuovi punti di vista e nuove riflessioni. Ne vorrei proporre una anch’io, perché il Nick Cave narratore merita, senza dubbio, un riconoscimento più ampio e capillare.
La trama schizofrenica di un libro allucinato
Un unico gemello è sopravvissuto al parto di un’alcolizzata, accoppiatasi con un vagabondo dal sangue “sporco”. Il bambino è Euchrid Eucrow. È il protagonista a tratti angelico, a tratti demoniaco, di una storia perturbante ambientata in una valle a tratti florida, a tratti marcia. Euchrid è un ragazzo muto cresciuto tra rovi e sterco, lontano dalla città “civile” Ukulore, che di civile ha molto poco.
Ukulore è gestita da una setta religiosa alla continua ricerca di mali da estirpare; una società basata su un profeta atipico, sulla diffidenza e sull’ipocrisia. Ed è proprio su quest’ultimo aspetto che si innesta la parallela vicenda di Beth, figlia di una prostituta linciata dalla popolazione (ma gli abitanti non lo sanno) che, con la sua apparizione “divina” diventa simbolo della rinascita della valle, un dono del cielo.
Una trama convulsa, strutturalmente divisa tra il passato episodico (rievocato da Euchrid) e il presente: Euchrid sta affondando nelle fangose sabbie mobili della palude, e nella discesa – discesa agli inferi, o salita in cielo? – racconta le vicende che lo hanno portato al presente del racconto. Un percorso che accompagna il lettore dalla nascita di Euchrid alla sua morte, raccontata in parte da lui stesso.
Vita e morte, rinascite e morti plurime (“Se ci fosse una spina per ogni volta che sono morto oggi (…) il mondo sarebbe una sola grande distesa di rovi”) attraversano il romanzo: la città rinasce grazie alla morte violenta della prostituta – che dà vita ad una bambina assunta come miracolo divino; e poi, con la morte di questa ormai ragazza – e la conseguente distruzione di qualsivoglia speranza – è la nascita di un invisibile neonato, suo e di “Dio”, a dare di nuovo speranza ai fanatici cittadini.
Nick Cave e la narrazione schizofrenica
Come già accennato, il gravoso compito di narrare è diviso tra un tradizionale narratore onnisciente, e il protagonista stesso, in segmenti tra loro ben distinti. Anche se, un dubbio sulla presunta esteriorità del primo narratore, arriva nelle pagine finali del libro: la narrazione si fa più concitata e sezioni narrate in terza persona, evidenziate col corsivo, si intersecano all’io-narrante del protagonista che continua a sprofondare. Ad un certo punto, però, il primo narratore si “confonde”:
Ad alcuni bastò un’occhiata al cielo per cogliere la minaccia in arrivo. Abbassarono subito lo sguardo e la loro furia si riaccese all’istante, perché la pioggia l’avevo portata io, l’avevo portata io; perché, dopotutto, la pioggia l’aveva portata LUI.
La schizofrenia della storia aiuta l’autore a far passare questa confusione come strutturale e necessaria alla storia stessa. È forse troppo affermare che il narratore esterno non sia mai esistito? Che, forse, sia sempre stata una diversa voce del folle protagonista? Una tesi simile trova, in questo estratto, un argomento a favore. Ed è confermata altrove, in piccoli punti sparsi per il romanzo, in cui si trova il protagonista sul punto di rivelare la natura delle voci che gli rimbombano nella testa; e mai riesce a rivelarle (bloccato dalle voci stesse?). Tra le tante voci, una può essere quella che imita il narratore tradizionale.
L’alternanza serrata è introdotta da una pagina, in un certo senso, modernista: l’io-narrante si rivolge direttamente ai lettori, iniziando a dubitare della bontà di questi “spettatori silenziosi e sinistri”:
Non posso fare a meno di pensare che state aspettando qualcosa. (…)
Siete degli informatori? Delle spie? Avete fornito informazioni preziose ai miei nemici? (…) Ci sono io e ci sono loro, ma che mi dite di voi? Che mi dite di voi, mio ambiguo terzo incomodo? Cosa ci fate voi qui?
Ma questa forma di meta-narrazione, che consiste nel rompere la “quarta parete”, è solo una delle caratteristiche del libro. E si inserisce in un filone ben preciso che attraversa tutte le arti: da Diderot a Fowles, da Pirandello a Brecht, fino ai nostri giorni con Tolo tolo di Checco Zalone. Ambiti molto diversi, livelli e gradi lontanissimi tra loro che usano la stessa “tecnica”.
Tono e senso
Difficile riassumere tutti i significati che Nick Cave ha incastrato tra le righe. Alcuni, però, non si possono evitare: il profondo odio per le chiese come istituzioni contrapposto alla pura fede delle “donne pie”; la certezza della sofferenza e della violenza terrena contrapposta all’impossibilità di coglierne il senso profondo.
Infine, ciò che anima la riflessione dell’autore è ciò che assilla l’essere umano: l’opposizione tra Bene e Male. Eppure, questa opposizione si complica nella vita terrena perché, a volte, non si capisce cosa sia il Bene e cosa il Male. Se Euchrid, nella sua follia, crede di dover compiere una missione (uccidere Beth) affidatagli da Gesù stesso, lui tenterà di ucciderla pensando di agire nel Bene. Eppure, gli abitanti considerano Euchrid il Male in persona, da uccidere come la prostituta.
Forse sono proprio i valligiani la chiave di questo conflitto secolare tra le due forze. Pii perché fortemente credenti e disposti a tutto pur di soddisfare il volere di Dio, sono allo stesso tempo dei folli fanatici che uccidono una prostituta secondo loro “colpevole” di aver attirato le ire divine su quella valle. Non c’è il Bene, né il Male: convivono sempre, senza che mai uno possa annientare l’altro.
Un simile senso, allora, è evocato anche dall’ambientazione e dal tono cupi dell’opera di Nick Cave: la valle così rigogliosa, pia, è devastata per alcuni anni da una pioggia continua, un Diluvio Universale a tutti gli effetti, che fa marcire oggetti e, soprattutto, abitanti:
Tra le donne accalcate sulla veranda si vedeva che era cambiato qualcosa, o meglio, che mancava qualcosa. (…) Qualcosa che era radicato a fondo nei cuori di quelle anime pie, e che prima brillava nei loro occhi, adesso era svanito. Di certo l’effluvio della calma non c’era più, e nemmeno l’aria di sicurezza interiore, la convinzione di appartenere a una cerchia esclusiva; la tranquilla fiducia in un destino celeste non colorava più la loro espressione.
Il Dio che abitava dentro di loro se n’era andato.
Al suo posto era comparsa un’aria di rassegnazione, di sconfitta, di vergogna; una mollezza del volto che rispecchiava la mollezza dell’anima.
Insomma, la soluzione è una sola: non c’è soluzione. La morale, allora? La morale è morta sotto strati di fango. Un mondo in cui anche gli innocenti soffrono, e senza motivo, forse è un mondo che fa schifo. La speranza non è morta, certo; è viva, ma grazie alla nascita della nipote di una prostituta.
Se il libro vi incuriosisce, vi consiglio l’ottima recensione di Marco Petrelli su ilmanifesto.it.
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