Quegli occhietti strizzati che non vedrai più

Quegli occhietti strizzati che non vedrai più

Sei sceso dal treno, ti hanno dato un passaggio a casa e proprio lì, in quella casa dove sei cresciuto, dove hai preso a testate gli armadi e urlato e pianto, tanti anni fa, in quella casa non trovi chi è sempre stato lì ad aspettarti. Capitava spesso che, tornando, tu trovassi solo lei, placida sulla sua brandina, lei che ti scodinzolava come se ogni volta fosse l’ultima, lei che si strusciava e ti metteva quel muso animale da tutte le parti. Di certo non si aspettava di vederti, e forse neanche si ricordava chi fossi, ma eri qualcuno di buono, e questo a lei bastava.

Spesso, tornando, ti sei ritrovato solo, a parte quel cane. Così, invece di aspettare il ritorno di nonni, genitori, fratelli, coccolavi un po’ quel cane così felice di vederti, prendevi la macchina e uscivi di nuovo, alla ricerca di quelle bricioline di rapporti lasciate un mese prima o due, rintracciare gli amici mai persi, quelli che la distanza avvicina, non allontana, e ti trovavi spesso al bar di quell’amico che non c’era verso di pagarglielo, il caffè. Ma soprattutto ti trovavi seduto nel retrobottega di quel negozietto così pittoresco, sì, proprio pittoresco, quella bottega sulla via Aurelia con le padelle appese al muro esterno, a salutare i passanti.

E in quel retrobottega c’era sempre una persona ad aspettarti, sempre la stessa e sempre diversa, un giorno patito della bicicletta e il giorno dopo impazzito per il puntinismo, e quella persona era una certezza, quella bottega una casa a cui tornare. E per te c’era sempre quel bicchiere di vino pronto, che quasi ti commuove il pensiero. E dopo quel bicchiere di vino non potevi andartene, c’era da parlare di come andavano le cose, E Tizio che fine ha fatto? E Caio?, No, lasciamo perdere, sto così bene qui per conto mio, Sempre più palude?, Sempre di più, sempre di più, però qui ci sto bene, qui respiro, almeno un po’, e così continuavano i discorsi, i ricordi del passato, i piccoli dettagli che ogni tanto spuntavano fuori.

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Poi non potevi mica andartene, sai?, dovevi rimanere e aspettare che chiudesse perché a pranzo si mangiava tutti insieme al ristorante lì accanto, con tre o quattro lavoratori della zona, geometri marmisti ingegneri banchieri, e tavolate così varie non le ho mai viste, e tu nemmeno, e compagnie così felici neanche. Però prima del pranzo c’era l’aperitivo, il bicchierino di pessimo vino del bar accanto all’osteria, e giù di briscola e discorsi su discorsi, e risate, e sigarette girate con la macchinetta che le gira da sola. Quella macchinetta gliel’hai regalata tu, tra l’altro, e lui ne era così felice.

Lo diceva a tutti, Questa me l’ha regalata lui, guarda che belle sigarette, e in effetti venivano proprio bene, o almeno meglio di quelle che faceva lui, almeno sembravano sigarette perché le sue, girate a mano con le sua gigantesche mani, sembravano grandi cannoni deformati, che lui fumava lo stesso, ridendo e strizzando gli occhietti dal troppo ridere, strizzandoli come solo lui sapeva fare.

Dopo l’aperitivo ci si sedeva tutti assieme, al ristorante, lo Chef ogni tanto spuntava dalla cucina per farci compagnia, almeno nei giorni migliori, e la cucina funzionava anche grazie alle padelle di quella piccola bottega di altri tempi. E le pareti erano zeppe di quadretti a puntini più o meno grandi, opera sua, ma più di tutto c’era lui, lui che legava e faceva legare, lui che metteva d’accordo vacche e buoi, lui che, comunque andasse, gli volevi bene perché era così, perché era lui, ciclista o puntinista non importava.

E tornando a casa, adesso, non hai trovato nessuno ad aspettarti. Non un cane, appunto. Di lei rimane solo un’ombra marroncina sul muretto a cui era appoggiata la brandina. E rimane la brandina un po’ sfondata, rimane il ricordo di un cane che, piano piano, se n’è andato. Allora, anche sei sei appena tornato, non hai potuto far altro che uscire di casa, prendere la macchina e andare, non importa dove, comunque andare, e senza volerlo, o senza saperlo, ti sei ritrovato lì, davanti a quella vecchia bottega d’altri tempi, e l’hai trovata chiusa, e non hai pianto soltanto perché stavi parlando al telefono, altrimenti…

La verità è che hai pianto anche se stavi parlando al telefono, Scusami, devo andare e hai riattaccato nonostante le proteste, hai riattaccato proprio mentre scendeva la prima lacrima, e accostando la macchina alla vetrina hai letto i cartelli “Chiusi per ferie”. In quel momento hai compreso che non c’era più lui ad aspettarti nel retrobottega, perché sotto Natale faceva metà dell’incasso e no, mai avrebbe chiuso sotto Natale, fosse stato vivo.

Ma il cane non c’è più, lui non c’è più, e ti sembra che questa zolla di terra tra il mare e i monti sia ormai deserta e disabitata nonostante la folla impazzita per i regali di Natale. Gente ovunque eppure sei solo, non puoi più berti quel pessimo vinello prima di mangiare con lui, non puoi più stringere quel cane quando senti che non hai niente e nessuno da stringere, e soprattutto non puoi più vedere quegli occhietti strizzati dal troppo ridere. E la solitudine non è solo una sensazione vaga, ma è proprio questo: non avere un cane, una persona, un bicchiere di vino da cui tornare.

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