Scappare lontano e vicino insieme

Scappare lontano e vicino insieme

Non so come sia nata questa tradizione. Capitava, a volte, di non aver voglia di niente e di nessuno. Allora si scappava, lontano ma vicino insieme, soli ma sempre in due. Si prendeva la macchina di qualche mamma, babbo o fratello, e si puntavano le montagne.

Negli specchietti retrovisori, il mare era sempre più lontano. Nella cassa portatile la musica della nostra adolescenza scema, perché la radio non prendeva tra i monti e gli smartphone, quando è iniziata la settimanale routine di fughe, non ci avevano ancora avvinto. Ogni tanto spuntava qualche canzone nuova, ma solo una è rimasta a distanza di anni.

Tra i tornanti e le salite delle Alpi Apuane, Stolen Dance ci accompagnava spesso. Il ritmo ipnotico e incalzante trasformava il paesaggio, sempre notturno e illuminato solo dai fari della macchina. Era come fluttuare nell’oscurità, galleggiare in avanti con dei fasci di luce come unica guida.

Quando partiva il ritornello, quel And i want you era un urlo disperato e congiunto, un urlo rivolto ai finestrini abbassati; e poi We can bring it on the floor con l’ultima parola un po’ distorta, pronta alla successiva, certo, ma soprattutto col pensiero a chi avremmo trascinato sul pavimento con noi; e You’ve never danced liked this before era straziante da urlare perché ci faceva tornare alla mente quella persona con cui avevamo ballato, parlato, scopato meglio in tutta la vita, insomma in quel dannato balletto chiamato vita; ma We don’t talk about it perché di certe cose non si parlava spesso, certi incontri rimangono ferite mai guarite, con lembi di carne viva ancora pulsante; Dancin’ on doin’ the boogie all night long eppure non potevamo smettere di pensare a quelle nottate di balli folli nudi sulla spiaggia, prima del bagno notturno, sempre in due, io e lei, io e quella; entrambi, io e questa, Stoned in paradise e intontiti di fronte alla visione chiarissima del passato che non può più ritornare, visione dolce e amara e ormai solo un ricordo, per sempre.

Ma Shouldn’t talk about it, shouldn’t talk about it. No, di quelle esperienze non ne avremmo più dovuto parlare. E non ne parlavamo quasi mai, anche se ci pensavamo di continuo, in particolare in quelle serate soli e sempre in due, sui monti lontani e vicini insieme. Lontani e vicini a casa. In quelle sere, belle da morire, non c’era tempo per parlare. Dovevamo solo cantare il più forte possibile, per svegliare il bosco attorno e i pochi abitanti, le piante e le stelle che sicuramente, lo credo davvero, solo noi guardavano.

Urlare e sfrecciare nei tornanti come nei rettilinei, coi finestrini abbassati per farci sentire da tutto e da tutti. E per sentirci vivi, col vento sulla faccia e il rumore della velocità nelle orecchie.

Poi, scavallato il monte, si rallentava. Lei abbassava la musica, beveva un sorso d’acqua e rimaneva in silenzio. La macchina ormai andava da sola, in discesa, sulla strada di casa sua. Poi io tornavo indietro, forse lei non lo sa, per la stessa strada. Forse non dovrei parlarne, ma mettevo le stesse canzoni. Però ero solo, ormai, con le mie visioni, e le canzoni non erano più intense come pochi minuti prima. Ma forse, di questo, non dovrei parlarne. No, non dovrei proprio parlarne.

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