Quando un tuo compaesano fa qualcosa di bello, non puoi che stampare una sua foto e appenderla in camera tua. Quando un tuo compaesano è l’unico (o quasi) della zona a fare qualcosa di bello, come scrivere Oro puro, dovresti creargli un altarino e celebrarlo ogni volta che puoi. Anche stampare dei santini non sarebbe male.
Questo è il mio altarino a Fabio Genovesi (ho già spiegato che, su di lui, non posso essere molto oggettivo). E al suo ultimo libro, Oro puro, che si stacca nettamente dalla produzione precedente, dai suoi luoghi cari, dai suoi personaggi così fortemarmini, senza però staccarsi affatto. Perché anche Oro Puro parla di mare e di marinai, anche se il mare stavolta è l’oceano, e parla di giovani e vecchi, di gioie immense e grandi dolori. Perché Oro puro, parlando della scoperta dell’America, parla di vita, parla d’amore.
Non chiedersi niente, non sapere niente, è così che per un attimo si rischia di essere davvero felici.
Oro puro in breve
Nuno è figlio di una ex prostituta ebrea di Palos, una donna senza marito che vive scrivendo lettere ai marinai di passaggio. Per questo insegna al figlio a leggere e a scrivere, che nel 1492 non è cosa da poco. Ma a circa 16 anni la madre muore, le persecuzioni contro gli ebrei raggiungono il culmine e Nuno decide di scappare.
Per una serie di (s)fortunati eventi viene preso a bordo di una massiccia nave, la Santa Maria, che salpa per un’avventura folle, spinta dal sogno di Colombo di tracciare una nuova via per le Indie. La storia generale, poi, la conosciamo. Ma sono i personaggi creati da Fabio Genovesi a incollarci alle pagine, col suo stile divertito e divertente, eppure delicato.
Oltre al piccolo Nuno, che parte impaurito e torna (tornerà?) uomo, ci sono un marinaio muto, e uno balbuziente. C’è Alonso, un vecchio dal canto così delicato da far venire voglia di andarlo a cercare nella realtà, uno così. E c’è Colombo stesso, dipinto nella sua pomposità di sognatore pazzo, o almeno pazzo di fede.
Le domande davvero importanti sono così, senza una risposta. Perché siamo nati? Cosa c’è dopo la vita? Cos’è l’amore, cosa la morte? Cosa c’era prima e cosa ci sarà dopo il nostro viaggio sulla Terra? Non lo sappiamo, non lo possiamo sapere. È così, sempre, per tutti. Ma non per l’Ammiraglio Colombo.
E poi ci sono gli indigeni, sì, perché si sa, Colombo nelle Indie non arriverà mai. Ma arriva nelle Americhe e le trama non poteva essere poi tanto diversa. O forse sì? Non importa. Gli indigeni, dicevo, accolgono gli europei come divinità. E pensano siano arrivati per loro, ma a loro degli indigeni poco importa: vogliono le pregiate spezie, vogliono l’oro.
Fabio Genovesi e l’amore
Ho letto tutto quello che ha scritto Fabio Genovesi e, non so voi, ma sembra che proprio non riesca a scrivere se non d’amore. Che sia l’amore per una persona, per un paese (cosa è, se non un libro d’amore, Morte dei Marmi?), oppure l’amore per il mare, per la gente, per un ciclista come Pantani. In parte è vero che tutte le storie sono storie d’amore, e tutti i film e tutte le canzoni e tutti i libri, in qualche modo, parlano d’amore.
Ma lui parla d’amore in un modo particolare, come se il resto non avesse senso o importanza. Va bene il viaggio alla scoperta dell’America, va bene l’avventura, la crescita, ma è di tanti amori che parla tutto il libro. L’amore di un vecchio che non fa altro che parlare della propria amata, ormai morta da tempo. L’amore impossibile, il primo, di un giovane mozzo che è stato anni a pensare che quell’amore non sarebbe mai arrivato.
Però, è anche l’amore di un uomo per i suoi sogni e per ciò in cui crede, che sia Dio, la Madonna, o i suoi stessi sogni. È l’amore di marinai sempre in mare, lontanissimi dalla terraferma, dalle famiglie, dalle donne amate.
Ed è, infine, l’amore di uno scrittore, un uomo, Fabio Genovesi, per l’amore in sé, come elemento che muove il mondo e gli uomini, che dà un senso all’esistenza. Perché senza non ci sarebbe motivo di muoversi, di esistere.
Una volta una ragazza mi scrisse una frase che mi sono appuntato su un taccuino. Diceva: “insieme a qualcuno o da soli, o alternando, cambiando, sarà comunque un bel viaggio. La meta è sempre una: l’amore, in qualsiasi forma”. Anche Fabio Genovesi sarebbe d’accordo.
Risvolto di copertina
Palos, Spagna, agosto 1492. Nuno ha sedici anni, ed è un granchio. O almeno, questo è il soprannome che gli ha dato sua madre, morta pochi mesi prima, di cui Nuno conserva un ricordo che è dolore e luce insieme. Pur vivendo sul mare, Nuno non ha mai desiderato solcarlo, e preferisce guardarlo restando aggrappato alla terra, proprio come fanno i granchi. Finchè, per una serie di circostanze tanto sfortunate quanto casuali, deve imbarcarsi su una nave di cui ignora la destinazione.
Si tratta della Santa Maria, a bordo della quale Cristoforo Colombo scoprirà – per caso e per sbaglio – il Nuovo Mondo. Mentre Nuno si renderà conto, lui che di navigazione non sa nulla, di condividere lo smarrimento coi suoi compagni molto più esperti: tutti spaventati da quell’impresa folle e mai tentata prima.
Avendo imparato dalla madre a leggere e scrivere, Nuno diventa lo scrivano di Colombo, e trascorrendo ore ad ascoltarlo sente crescere l’entusiasmo per i grandi sogni di questo imprevedibile esploratore visionario. Attraverso lo sguardo di Nuno, percorriamo il viaggio più importante della storia dell’umanità: i giorni infiniti prima di avvistare terra, fino alla scoperta di un mondo nuovo, una nuova umanità, una nuova, diversa possibilità di intendere la vita. In questo Paradiso Terrestre, Nuno imparerà quanta ferocia, quanta avidità possa motivare le scelte degli uomini, ma anche la forza irresistibile dell’amore, che lo travolgerà fino a sconvolgere i suoi giorni e le sue notti.
In questo romanzo, Fabio Genovesi non solo ci racconta la navigazione di Colombo come mai è stato fatto prima, ma ci cala dentro una grande avventura umana, esistenziale e sentimentale, che si snoda attraverso imprese, amori, crudeltà spaventose e improvvise tenerezze, svelandoci come dietro la scoperta occidentale delle Americhe si nascondano violenze, soprusi e malintesi, ma soprattutto l’insopprimibile, eterno istinto degli uomini a prendere, consumare e distruggere tutto, persino se stessi.