Le grandi dimissioni – Francesca Coin (Einaudi, 2023)

Le grandi dimissioni – Francesca Coin (Einaudi, 2023)

Negli ultimi mesi ho rifiutato molte offerte di lavoro e delle “interessanti” prospettive. Alcune per motivi legati a retribuzioni degradanti, altre per offerte economiche in linea con lo sfruttamento generale. Ma certe condizioni non ero disposto più ad accettarle, e finora, forse, non sono stato in grado di spiegare il perché. Grazie a Francesca Coin e al suo libro, Le grandi dimissioni, sono riuscito a capirmi di più, a farmi capire meglio (grazie davvero).

… perché se il mondo della cultura non è un presidio di buone pratiche, il nostro lavoro è inutile.

Non ne vale la pena

Se fosse possibile riassumere il libro in una sola frase, il risultato potrebbe essere più o meno questo: non ne vale la pena. Che poi è la stessa frase che ho ripetuto spessissimo, negli ultimi mesi, nel tentativo di spiegare a chi avevo attorno la mia scelta di lasciare il lavoro. Un posto di lavoro dei “sogni”, un tirocinio ottimo, “ben retribuito”, con buone prospettive. Qualcuno ha capito, qualcuno no, ma il succo era proprio questo: non ne valeva più la pena.

Prima, però, ho lavorato per due anni in una piccola casa editrice in crisi. Purtroppo, anche per l’ambiente pseudo-familiare creatosi (che male si sposa con l’ambiente lavorativo, e Francesca Coin ne parla), il mio lavoro non è stato valorizzato, né economicamente riconosciuto. Per questo ho deciso di aggiungere un master ai lunghi anni di studio, con la speranza di veder cambiare le cose, o di aprirmi a nuove opportunità. E il master, va detto, qualche porta l’ha aperta. Ma il panorama che ci si trova di fronte, dopo un master in editoria, è poco più che desolante: tirocini anche non retribuiti, anni e anni di precariato.

Giovani incastrati dalla “trappola della passione” che è, come spiega Francesca Coin, “il sintomo di una cultura del lavoro che si serve della passione come esca per estorcere una disponibilità completa”. Una situazione inaccettabile di per sé, ma assurda se si considera che ad approfittarsi di giovani laureati è l’industria del libro.

Per non parlare del fatto che la capitale dell’editoria è Milano. E Milano, si sa, è ogni anno più cara. Ha senso lavorare otto, nove ore al giorno per poi essere costretti a chiedere aiuto ai genitori, per sopravvivere? Se consideriamo che nell’editoria libraria italiana un tirocinio retribuito 600/700 euro è ben retribuito, vale la pena vivere in una città che ne chiede 600/700 soltanto per una stanza in affitto? Ha senso fare tutta la trafila di tirocini a 700 euro (quando si è molto fortunati), e poi gli apprendistati a 1000 euro, se si è ancor più fortunati, per 3, 4 anni, prima di avere un contratto che permetta un minimo di autonomia? Secondo me, non ne vale la pena.

Vale la pena di rovinarsi la salute per una paga da fame?
Vale la pena di subire le angherie di un capo per settecento euro al mese?
Vale la pena di andare a lavorare per poche centinaia di euro e spenderne altrettante per pagare qualcuno che si prenda cura dei figli?
Tutte queste problematiche non possono essere ridotte a una bassa retribuzione. Ma una bassa retribuzione non offre una contropartita sufficiente a chi cerca la motivazione per sopportarle.

Le grandi dimissioni

Il libro di Francesca Coin ha il pregio, tra gli altri, di fare chiarezza in una situazione che accomuna e affligge più generazioni, insofferenti per un sistema in cui, indipendentemente dal “sangue” versato, dall’impegno, dalla fatica fatta, non è previsto alcun miglioramento.

È il caso di medici e infermieri, che si sono ritrovati a operare per una sanità pubblica sventrata in favore di imprese private e gettonisti pagati il triplo. È il caso di lavoratori della ristorazione, il cui trattamento è, spesso, paragonabile allo schiavismo, con salari ridicoli (contrapposti ai ricavi dei titolari) e nessuna libertà di disporre del proprio tempo libero.

È il caso di tanti amici, amiche, lavoratori e lavoratrici culturali. Tutti costretti ad accettare paghe degradanti per fare il “lavoro dei sogni” e seguire le proprie “passioni”. Tutte retoriche, queste, che Francesca Coin illustra e smonta col rigore di una studiosa, e con la delicatezza di chi parla di una materia viva come la vita delle persone. Persone costrette a subire vessazioni per i malumori dei superiori, con ferie non concesse, straordinari non riconosciuti, paghe non adeguate, e la continua minaccia di perdere il posto. Una normalità che molti non riescono più ad accettare.

Il dialogo impossibile

Sarebbe bello se gli imprenditori leggessero Le grandi dimissioni. La smetterebbero di dire che i giovani non hanno voglia di lavorare? Che il reddito di cittadinanza ha tolto la voglia di lavorare ai pochi che ce l’avevano? Probabilmente no, perché temo che sappiano già tutto, anche se continuano a fare orecchie da mercante, appunto.

Non si tratta di abolire il lavoro per cambiare il mondo, si tratta di cercare un modo per sottrarsi a un sistema che ti divora.

Ed è nell’interesse degli stessi imprenditori avere dipendenti più motivati, più felici. Ma a qualcuno conviene così: non cambiare niente, perché cambiare è faticoso. La situazione attuale è comunque redditizia.

Ma questa insofferenza è destinata a crescere. Per quanto tempo basterà mischiare le carte in tavola facendo le ennesime promesse, confondendo le persone con progetti folli di ponti e funivie inutili, per distrarre l’attenzione? La gente è stanca, povera e infelice. Quindi, la gente è incazzata. Ma (sembra) verso i responsabili sbagliati.

Le grandi dimissioni, un libro epocale

Sono tanti i libri non abbastanza letti, non ascoltati dalle epoche passate. Spero che Le grandi dimissioni non rientri in quella lista, anche se ho paura che verrà letto soltanto da chi è già d’accordo, da chi già sa.

Avrei voluto parlarne di più, del libro, ma non vorrei togliere a nessuno il piacere della lettura. Anche se, a dirla tutta, tanto piacevole non è. Perché quando ti spiegano i motivi che stanno dietro alle tue insicurezze, alle tue ansie e alle tue insofferenze, tanto felice non puoi esserlo. Soprattutto se le soluzioni possibili non sono affatto a portata di mano.

Ma è la realtà a non essere piacevole. Possiamo consolarci un po’ col fatto che, nella stessa situazione, siamo in tantissimi, anche se questo non consola molto. Però è consolatorio sapere che c’è qualcuno come Francesca Coin che si prende la responsabilità di spiegare che cosa non va. E, per fortuna, quel qualcosa non siamo noi.

La risolutezza di chi rifiuta un lavoro che rende cinquecento euro al mese non esprime un privilegio: ci dice che non possiamo permetterci di lasciarci spingere al suicidio da un sistema tossico.

Comune di Genova, a latere: il lavoro non va retribuito

Circa sei mesi fa, il Comune di Genova aprì un bando per la ricerca di un volontario per 6 mesi di lavoro, quattro ore al giorno per massimo quattro giorni a settimana, con possibilità di rinnovo. La figura, doveva supportare l’organizzazione di “eventi correlati ai temi migratori presso i musei afferenti l’istituzione Mu.Ma”, cioè il Museo del Mare. Inoltre, era richiesta una “ottima conoscenza della lingua inglese (preferibilmente madrelingua o comunque perfettamente bilingue”. Ovviamente, fu polemica.

È di questi giorni, invece, la notizia che sempre il Comune di Genova sia alla ricerca di giovani sotto i 35 anni che “desiderino promuoversi di fronte ad un pubblico vario, avendo gratuitamente a disposizione un palcoscenico prestigioso come quello della Sala Verde e antistante terrazza monumentale del Museo di Archeologia Ligure, sito all’interno di Villa Pallavicini di Pegli”. Ovviamente, “non sono previsti compensi” perché, da come risulta evidente dall’avviso pubblico, il lavoro sarebbe pagato in visibilità.

Scoppia la polemica, e la risposta del sindaco non si fa attendere: “non vedo il motivo della polemica, è ridicolo questo modo di pensare”. E ancora: “questo non è lavoro, è un’opportunità”.

Dopo aver letto Le grandi dimissioni, sentire certe parole da un sindaco, fa quasi venire nausea. Ma si sa chi è il Sindaco. E questa è Genova, questa è l’Italia. Per quanto ancora, lo sarà?

P.S: adieu

Lo so, lo so. Potrei non lavorare più in editoria dopo questo articolo. Potrebbe bastare che lo leggesse una sola persona, più o meno importante, e il mio incerto futuro acquisirebbe una certezza: l’editoria non fa parte del mio futuro.

Se così fosse, adieu editoria, adieu colleghi. Ci vediamo su teams, al bar, nei gruppi di lettura, nelle librerie. Da questi posti non possono cacciarmi.

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