Che la tua morte sia per noi lieve

Che la tua morte sia per noi lieve

Ci si scorda del tempo che scorre; ci si scorda della casualità della nostra nascita; ci si scorda dell’imminenza della nostra morte.

Ieri sono volato, in macchina, verso la mia vecchia casa, e dura, e lieve: Padova. Tre ore di viaggio, sfrecciando tra camion traballanti e utilitarie guidate da vecchi rincoglioniti. Quando mio padre ha saputo della partenza, ha detto “prendi la mia macchina; che almeno il viaggio sia piacevole”. E lo è stato, in effetti. Sedili comodi, posizione favorevole ai viaggi lunghi e le canzoni delle mie playlist. Soprattutto la velocità, però, mi coccolava. Superare sconosciuti senza che la macchina facesse alcuno sforzo, mi tranquillizzava. E non una vibrazione, non un’indecisione del motore. Sfrecciavo in pace, con la calma (seppur ad alta velocità), che precede la tempesta; refolo che anticipa uragano. Il tempo scorreva nello stesso modo di sempre, ma era comunque più veloce di me, che lo inseguivo invano.

Arrivo nel piazzale della chiesa e trovo un accumulo di persone tristi, ritte in piedi, intente a scambiarsi saluti di circostanza. L’attesa del feretro è peggiore, quasi, dell’attesa della morte. I vivi aspettano un corpo morto, come aspettano per tutta la vita che il loro corpo, vivo, si faccia morto. E si celebra il cadavere, o le polveri rimaste, per chi è ancora vivo. Si celebra per la famiglia, per gli amici più stretti, ma non ci sarà alcuna resurrezione passati i tre giorni tradizionali. Si vive con la consapevolezza che la vita ha da finire; si vive celebrando e ricordando i morti. E ci si scorda troppo, troppo spesso dei vivi. E si piange, e piango, il morto, ma forse è verso chi rimane che il nostro dolore si rivolge. Forse, oltre al vuoto lasciato dalla perdita, è il vuoto lasciato nelle persone più vicine al defunto che ci fa soffrire. Il tutto è una somma di vuoti, un’infinita somma di vuoti causata da una vitale scia di morte.

Ed ecco la bara. Ed ecco il sermone, le lacrime, le condoglianze. Poi arriva il coro dei compagni di squadra; vedo i miei compagni stringersi, abbracciarsi, e incitarsi come quando si facevano le mischie, nelle partite; mischia di cui lui, basso e massiccio, con “poco fiato per correre ma tanto per fare polemica”, era l’anima. Ricordo tutta la fatica, tutte le botte, tutte le uscite. Basta quel coro e un anno intero di esperienze, quasi dimenticate, riaffiora dall’oblio maledetto del tempo. Usciamo dalla chiesa e bestemmio. Dovrei credere nella sua esistenza, per offenderlo davvero, ma è solo uno sfogo, adesso. I ricordi si accavallano, il pensiero logico non esiste più. Solo le lacrime, e le domande, accompagnano le bestemmie e gli abbracci dati dopo anni di vuoto. Lacrime, bestemmie e abbracci. Pippo è morto. Viva Pippo.

 

“Preferisco non chiedere per quanto ancora e quando.

Preferisco considerare persino la possibilità che l’essere abbia una sua ragione.”

Wislawa Zsymborska

 

C.B.A.

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