Anche Oporto sfavilla al sole. Te ne sei reso conto quasi subito, appena sceso dall’aereo, quando il granito della sala arrivi, ben levigato e lucidissimo, rifletteva le grandi lampade al neon i cui riflessi si muovevano al tuo passaggio. Questo tuo viaggio è un intermezzo, un respiro tra una bracciata e l’altra, una boccata d’ossigeno prima dell’apnea, prima dell’ignoto. Un viso amico accanto, un’altra città che sfavilla anche se in modo diverso dall’altra, da quella che ancora ti attende.
Quando ti sei accostato a quel muro di pietra irregolare, quel muro antico di una chiesa in cui non siete neanche entrati, l’hai detto anche a lei, Guarda, ma qui brilla tutto!, come l’aeroporto, così i muri delle vecchie case, abbandonate anche in centro città, e i marciapiedi fatti della stessa pietra. Pure l’asfalto vecchio, che resiste col suo grigio chiaro tra le strisciate bituminose più fresche, più scure, pure l’asfalto brilla come fosse cosparso di glitter. Brilla anche lei, quando chiude gli occhi e alza la testa verso il sole, anche se lei non lo sa. Ogni tanto si ferma, chiude gli occhi e alza il mento verso il cielo, come se facesse la fotosintesi, come se senza il sole non riuscisse a vivere, così le chiedi che pianta sia. Sono un girasole, dice, Bello, rispondi, ma è un fiore, Allora sono un cactus, di quelli che fanno i fiorellini gialli, così sono sia una pianta che un fiore. Inattaccabile, come sempre.
Non sai se dirglielo che ti senti esattamente lo stesso cactus, e che il giallo è il tuo colore preferito, ma te lo tieni per te. Vorresti anche dirle che un viaggio così non lo faresti con tutti. Piuttosto da solo, pensi, ma con lei sì, ha senso, su questo asfalto che sbrilluccica, su cui corre poco rapida quella moto che avete noleggiato.
E quei muri vecchi, quelli lasciati con la pietra a vista che si alternano a orrendi palazzi squadrati e moderni, incastrati con cattivo gusto nella città vecchia, tra un antico palazzo e una facciata ricoperta di azulejos, su questa moto lenta che non può scappare da nessuna parte, quei muri che brillano ti fanno capire che non hai un problema solo con quell’altra città, quella tua città mai vissuta per davvero, quella città che chiama il tuo braccio sinistro, proprio il braccio più vicino al cuore, Prima o poi, ti dici, no, il problema riguarda questa nazione tutta, queste persone sorridenti e malinconiche, e anche questo fruttivendolo che schiaffeggia con dolcezza la mano dell’anziana moglie mentre sbaglia a battere lo scontrino.
Una città che brilla, forse solo ai tuoi occhi, ti ha convinto che a brillare sei tu quando ti ritrovi accanto certe persone che non ti aspettavi, sei tu che brilli mentre guardi brillare lei, con gli occhi chiusi e la testa rivolta verso il sole, concentrata a fare la fotosintesi.
Pensi alle cose che vi siete lasciati dietro prima di partire, alle persone che non troverete al vostro ritorno. Gli imprevisti e le false partenze, alla fine, vi hanno condotto lì insieme, in un momento di bisogno per entrambi, qualcosa vorrà pur dire. Dopo il viaggio mancato, le persone mancate, un viaggio con la persona giusta era necessario. I compagni di viaggio a volte capitano, a volte si scelgono, ma la situazione migliore, come sempre è quella che sta nel mezzo, quando scegli una compagna di viaggio che è capitata perché un po’ ti ha scelto lei, forse non inaspettata del tutto ma, a pensarci, quando mai hai pensato che sarebbe andata così bene?
Molti pensano che un buon compagno di viaggio sia qualcuno che cammina alla tua stessa velocità. Tu l’hai sempre pensata così, almeno fino all’altro ieri, a fine viaggio, quando sull’aereo del ritorno, mentre lei dormiva raccolta a riccio sul suo sedile, tu, con gli occhi chiusi, ripercorrevi le stradine, i vicoli, le spiagge. Ti sei reso conto che eri sempre due passi dietro di lei, ogni tanto ti distraevi un attimo e lei subito si staccava, col solito passo mai frettoloso. Eppure le sue gambe sono la metà delle mie, hai pensato, sorridendo, nel dormiveglia di quel ritorno poco allegro. Allora hai capito che forse non è tanto la rapidità del passo a fare di qualcuno un buon compagno di viaggio. Forse, hai pensato, è semplicemente vedere entrambi lo stesso pertugio percorribile tra la folla, emozionarsi per lo stesso tramonto, sorridere alla dolcezza dello stesso cameriere di mezza età, un po’ sbilenco e con pochi capelli in testa, oppure, insieme, rimanere silenziosi per tutti i minuti che impiega il sole a scomparire nel mare, per tutta la via del ritorno, per tutto il tempo necessario, quando il viaggio è finito e la malinconia cresce. C’è sempre qualcuno che si ferma più spesso, col naso all’insù, a osservare la finestra aperta di un vecchio palazzo, a tentare di capire cosa trasmette quell’esemplare raro di televisore a tubo catodico. Non è poi così importante camminare alla stessa velocità se quello più lento, ogni tanto, affretta il passo mentre quello più veloce, qualche volta, in mezzo alla folla o ai bivi di strette stradine gira leggermente la testa per controllare che il compagno di viaggio ci sia ancora e non si sia perso nella calca.
Lei dorme ancora, e ti sembra che non abbia mai problemi a dormire. Si mette in posizioni assurde, posizioni in cui le tue giunture resisterebbero tre secondi prima di dislocarsi per l’eternità. La parte bella del non dormire molto è che pensi tanto. La parte brutta del non dormire molto, però, è che pensi troppo. Infatti, mentre lei dorme alla tua destra e la ragazza alla tua sinistra emana un lieve profumo di fiori, mentre questa sfoglia il suo romanzo in portoghese di una qualche Antunes di cui non sai niente, tu pensi. Non pensi ai viaggi passati né ai viaggi mancati. Per la prima volta da quando hai iniziato a scrivere ti accorgi che i tuoi lettori più affezionati non ci sono più. Pensi al suo commento ricevuto su quel maledetto e meraviglioso viaggio, quel Belin che ti ha detto per telefono dopo mezz’ora dall’avergli girato il link, Belin, disse, mi hai fatto commuovere. Forse è per cose così che non smetti di scrivere: la terapia d’urto di mostrare parole assemblate da te, la fatica e il dolore del ricordare certi viaggi, certe lei, certe cose, tutto ripagato da un Belin, da una lacrima scesa durante la sua lettura, sul divano, dopo averti aspettato per una settimana, dopo tutte le lacrime, le tue, scese durante la scrittura.
Stavi attraversando in moto delle enormi dune di sabbia quando hai accettato che il problema era non una città, ma tutto il Portogallo. La strada schivava le dune più alte girandogli attorno, sviando negli avvallamenti tra una e l’altra, quando ti sei accorto che la pendenza iniziava ad aumentare. Sempre con la vista coperta, a destra e a sinistra, da altissime dune di sabbia, dune come non le avevi mai viste, la strada in salita si è fatta discesa. Di fronte a te, oltre quella collinetta, un’enorme distesa di dune e stoppa e piccoli arbusti stentati e, in mezzo, la tua strada, la vostra strada. Una lunghissimo rettilineo che ti sembra non avere fine, in mezzo ad un paesaggio che giureresti di non aver neanche mai immaginato prima. Forse, pensi, sono le stesse piante che crescono in quelle misere dune rimaste di fronte al tuo mare, due di numero e circondate da cemento, da ville, da residenze estive, circondate da stronzi. Qui, invece, una steppa desolata, rare macchine che la attraversano senza fermarsi e neanche un rudere in vista nel raggio di chilometri. Sai che dove andrai non ci sarà alcuna folla, non ci sarà da sgomitare per un posto al sole, non dovrai scostare altre persone per poter stendere il tuo telo mignon su una spiaggia mangiata dal mare e dall’uomo.
Ti aspetti spiagge senza fine, un vento ininterrotto che sembra dire, Ecco, qui comando io, e poi il mare sempre arrabbiato perché non è più mare ma oceano, acqua rabbiosa non adatta a famiglie, alla massa, al caos umano. Questo ti aspetti di trovare. E come ogni cosa che ti aspetti prima di arrivare in qualsiasi posto, pensi che sarà peggiore, o comunque diversa. È sempre così, per qualsiasi nuova destinazione, per qualsiasi nuovo incontro, Tranne che per questo dannato paese, pensi. Infatti, quando scendi dalla moto e ti incammini verso la spiaggia, la vedi migliore di come l’avevi immaginata. Più grande, più spaziosa, più bianca. E speri che diventi realtà quel libro pazzo in cui tutta la penisola iberica si stacca dalla vecchia Europa e inizia a navigare nell’Oceano, roteando e cambiando direzione ogni tanto, ma magari con un finale diverso, senza mai fare ritorno, così da avere una scusa per rimanere lì.
La spiaggia che vedi è più grande, più spaziosa, più bianca di quella che avevi immaginato. E anche la spiaggia brilla, più delle spiagge che conosci. Sei appena arrivato e vorresti già rimanere, non hai neanche aperto lo zainetto e già senti la malinconia del dover ripartire entro qualche giorno. Vedi le casette bianche tutte appiccicate a proteggersi l’un l’altra dal vento, tutte di fronte al tramonto che inizia a intravedersi, e sogni una vita lì, seduto su questa panchina davanti alla tua casetta, sulla scogliera vista spiaggia, a guardare il tramonto coi tuoi amici.
Quando trovi qualcuno che come te ha un problema coi tramonti niente può andare male. Neanche la folla di persone vocianti sedute in questo giardino fronte fiume, spacciato come il miglior punto panoramico per osservare il tramonto in città. Il chiosco della Sagres ha una fila infinita ma scorrevole, e mentre lei tiene il posto sull’erba rada te attendi il tuo turno, scorri i messaggi in attesa di una tua risposta, ti chiedi dove siano quelli che non senti più, e speri che stiano bene almeno quanto stai bene tu, adesso che la coda è finita e tieni nella mano destra una sangria bianca e una birra ghiacciata nell’altra.
Quando torni da lei il sole è calato molto, è quasi l’ora che aspettavi e lo spazio di verde tra le persone accampate è sempre più ristretto. Venditori ambulanti di bibite e snack camminano tra la folla schivando le gambe stese, le mani d’appoggio dietro la schiena. Portano grandi scatole di polistirolo stracolme di ghiaccio e birre e vino, e anche loro, anche in mezzo a quel casino di stranieri che invadono uno dei posti più belli della loro città, nonostante la fatica e tutto il resto anche loro sorridono.
Il sole è diventato arancione, le vostre bevande sono finite e inizia a fare fresco. Anche tu lo senti: il sole scalda sempre meno e il vento, quello che ti ha coccolato tutto il giorno facendoti sentire a casa, come fosse il vento di quell’altra città, casa tua, anche il vento senti che non ti dà più sollievo, ma ti suscita qualche brivido. Ti metti la felpa mentre lei, già con la sua giacca abbottonata fino al collo, prende la tua giacchetta e la usa come coperta per le gambe, mentre attorno a voi turisti troppo svestiti iniziano ad andarsene coi loro abiti troppo corti per la stagione. Riesci addirittura a vedere la pelle d’oca sulla ragazza che hai accanto, una biondissima nord-europea che al freddo dovrebbe esserci abituata.
Lei ti presta una delle sue cuffie, e capisci subito che sarà uno di quei tramonti davanti al quale si piange per togliersi qualche peso. Niente pianti folli, niente drammi né disperazione, solo una lacrima per ogni amico che non c’è più, per il freddo che si sente dentro, ogni tanto, anche nelle giornate più calde. Col freddo dentro ci si può far poco, però lei nota che inizi a sentirlo anche fuori, il sole è ormai calato sotto al profilo della città, e ti cede un po’ della tua giacca, che diventa così una coperta per due, una coperta caldissima.
Pensi a quando scaldavi la sua parte di letto mentre si lavava i denti, chissà quanti anni fa, chissà dov’è adesso, per poi cederglielo pochi attimi prima che ci si infilasse, quasi saltando, nascondendosi nelle coperte e rimboccandosele fino al naso, in attesa che tu, col tuo braccio, la sigillassi nel letto, appiccicata a te per combattere il freddo di quella casa nuova, in costruzione, ancora senza arredi, senza oggetti, senza casa. Chissà come sta, pensi, e la immagini ancora più bella dell’ultima volta che l’hai vista.
A quella lei pensi mentre lei, adesso, ti posa la tua giacca sulle gambe, grazie a questa coperta resistete ancora un po’, e nulla vieta di prendere le vostre cose e andarvene, ma pensi che ci sia ancora tempo per un’ultima canzone, e ti sembra che lei pensi lo stesso perché nonostante il freddo fuori e il freddo dentro, sceglie altre canzoni che parlano di qualcosa che non abbiamo, di qualcuno che non c’è, di cose che non proviamo da un po’.
Lo so che è tardi,
che sei partita,
ma questa estate
non è iniziata e non è finita
Vorrei che fossi
su questo tutto
su quella spiaggia
sull’orizzonte di questo letto
su questo letto
Finisce l’ultima canzone, non è rimasto più nessuno su quel prato in lieve pendenza, non le persone e non la luce del sole, ormai solo le luci della città, i riflessi sul fiume, i chioschi sono tutti chiusi, e le televisioni delle case portoghesi stanno trasmettendo la fine di una partita di calcio. Capite senza dirvelo che è l’ora di andare, è il momento di asciugarsi la faccia e ingoiare il groppo che si è creato in gola.
Lei si mette addosso la giacca che vi ha fatto da coperta. Adesso le fa da vestito e le sta davvero bene, ma stai pensando a tante altre cose. Ti senti più leggero anche se, con le sue canzoni, è riuscita a farti versare qualche lacrima. Ma ti ha fatto bene, se ti senti più leggero è proprio perché non piangi da un po’, e piangere in compagnia fa sempre bene. Così, dopo il pianto collettivo, ti alzi in piedi con gli occhi un po’ gonfi ma le gambe leggere, la testa leggera, il respiro leggero, la gola che si scioglie piano piano di quel nodo accumulato nel tempo. Giusto il tempo di ricacciare indietro le lacrime rimaste a metà strada, bere un sorso d’acqua, ed è già l’ora di tornare.