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I Giorno
Alle volte, i sogni che si fanno da ragazzi, si scordano. L’hai pensato stamani, dopo aver finalmente caricato la moto, assicurato le cinghie per il viaggio e spremuto i vestiti per riuscire a chiudere le borse laterali. Eri alle scuole medie quando hai preso il patentino, sognavi già una moto ma hai detto, No, la moto 50 è inutile, risparmiamo adesso per prendere qualcosa di più sensato dopo. Avevi 14 anni. A ripensarci sembravi più assennato all’epoca rispetto a ora, adesso che viaggi a 110 chilometri orari su una moto di ventiquattro anni, stracarica, con una persona che non puoi dire di conoscere molto. Qualche anno fa ti vantavi di avere una moto dell’età della tua ragazza, o viceversa, non ti ricordi più, adesso ci scherzi meno perché quattromila chilometri in venti giorni su una moto che ha quasi la tua età sono, per tanti, una pazzia, e quella ragazza non la senti da tanto tempo.
Follie simili le hai sognate a lungo, da ragazzo, quando col tuo scooter scappavi sui monti a cercare un po’ di pace. Erano fughe anche quelle, ricordi?, e ricordi le domande dei tuoi genitori, dei nonni, Ma come, dicevano, vai da solo?, Certo, Ma che vai a fare da solo?, e a tutti rispondevi che saresti andato là per concentrarti meglio, per studiare, la verità è tutt’altra perché non sei mai riuscito a tenere aperto un libro di scuola per più di un’ora, dopo quell’ora il vuoto, chiudevi tutto e ti mettevi a leggere i tuoi libri, guardavi qualche film preso in prestito nella biblioteca di paese, poi giravi in scooter senza una meta e, già all’epoca, ti sedevi sulle panchine, all’ombra, ad aspettare. Sognavi, su quelle panchine, di avere una moto, di vivere tra i monti e non tornare più, di sposare la figlia di qualche signorotto locale per vivere beato e in pace lassù, lontano.
Dopo pochi giorni, però, tornavi dalla famiglia, dagli amici, tornavi a casa perché la solitudine, sì, ma a piccole dosi, anche all’epoca, come adesso, che anche se scappi senti sempre il bisogno di tornare, avere persone attorno, tornare dagli amici. Proprio come adesso, ora che il sogno di partire in moto lo stai realizzando e, anche se saresti partito pure da solo, un po’ meno carico e con qualche paura in più, sei partito con lei, e in due tutto è meglio, anche in silenzio, anche a distanza, anche ora che tu non riesci ad aspettarla e ti tuffi prima, fai il morto al largo mentre lei esplora gli scogli per conto suo, sbattendo un ginocchio da qualche parte senza che tu neanche te ne accorga, lontano, soli ma insieme.
Mentre cerchi una posizione non troppo scomoda per scrivere sdraiato sui sassi, ti arriva un messaggio che non ti aspetti e che, come tutto ciò che dice lei, ovunque sia, non capisci del tutto e pure capisci fin troppo bene. Buon viaggio, ti dice. Divertiti, aggiunge, Mangia tanto, fai foto, manda foto, innamorati, nuota, senti la mancanza, scrivi, e poi un punto, il tutto suggellato da un cuore che forse oggi si manda con troppa facilità ma questo, pensi, questo no. Non sai neanche cosa rispondere tanto è inaspettato, e bello, così lo rileggi e ti prendi del tempo per trovare le parole giuste, anche se le parole giuste le sai già e non le puoi dire. Allora che dico?, ti chiedi, e usi il vecchio trucchetto di rispondere con parole d’altri, non con le tue, perché suonano sempre meglio anche grazie a quel sottofondo musicale che hanno, sono parole in musica, anzi, è proprio una canzone quella che hai scelto, e quella canzone dice più o meno che accontentarsi non va bene, che adagiarsi sul sufficiente non basta a persone come te, come lei, che certe promesse non si dicono ma si sentono, certi puntini di sospensione rimangono sospesi per anni e, prima o poi, in un modo o nell’altro, vanno chiusi, va messo un punto, o una virgola, la parola fine o, dopo la virgola, un poi, un allora, un quindi, e a te piacciono anche le e dopo le virgole, ti suonano bene, ma questo non lo dice la canzone, la canzone non la senti più, sei tu, adesso, che ripensi agli e possibili che sono rimasti in sospeso dopo quelle virgole, Per ora?, pensi, Per sempre?, chissà, puntini di sospensione…
Poi rileggi il messaggio e pensi che andrebbe corretto, Ma certo, pensi, Va bene “divertiti, mangia tanto, fai foto, manda foto”, ma “innamorati”?, ti chiedi, Ancora?, di chi?, e va bene “nuota”, ma “senti la mancanza”?, ti chiedi, Ancora?, e poi non va bene, no, non è una sola, dovrebbe essere “senti le mancanze” e lei, lei che è una, dovrebbe saperlo, però la chiusa è giusta, “scrivi”, dice, un’altra persona che te lo suggerisce, non una qualunque, e non sai il perché, forse perché le piace come scrivi, o forse le piace quando scrivi, quel momento in cui ti metti le cuffiette per isolarti e sparisci per un’ora o due rimanendo lì, accanto a lei. Non sai niente, ma speri almeno che le piaccia quando scrivi di lei, proprio come adesso.
III Giorno
Non hai neanche avuto il tempo di rileggere quello che avevi scritto, figuriamoci di descrivere quella giornata, quel caldo, quei chilometri macinati senza sentirne il peso, senza accorgersene, se non per la spia della riserva che si accendeva ogni tanto. Oggi puoi farlo, lei dorme già alle nove e fa bene, sono stati due giorni stancanti, felici senza motivo, con una laguna dall’odore dell’Adriatico trovata a caso, la focaccia di Recco mangiata ad oltranza per tre giorni di fila e la prima notte in tenda di questo viaggio. Sotto la pioggia. Un temporale ti ha tenuto sveglio per tutta la notte, coi suoi lampi che riuscivi a vedere anche ad occhi chiusi, e la pioggia che colpiva la tenda prima poca, leggera, poi forte, a scrosci pesanti, non ti faceva dormire. Sei rimasto sveglio per l’eccitazione, Che bello essere qui, pensavi, in tenda, e con lei, sotto la pioggia, anche se qualcuno potrebbe dire che le cose potevano andare meglio di così tu sai che ieri, almeno ieri, meglio di così non poteva andare. Nonostante la pioggia, la strada bagnata, la moto che singhiozza e sobbalza come un cavallo imbizzarrito, ma solo quando va piano, nonostante la cena improvvisata, nonostante tu ti sia scordato di prendere nel book-crossing di fronte alla laguna quel libro che sognavi di trovare senza mai crederci davvero, eppure c’era. Nonostante il caldo infernale del primo pomeriggio, quando hai cercato riparo in un paesino a caso, nel nulla, senza trovarci niente di ciò che cercavi, che poi ti bastava un parchetto pubblico o un po’ d’ombra, niente di ché, ma hai trovato la conferma, almeno, di essere sulla strada giusta quando hai letto una scritta strana, Les Saveurs du Portugal, proprio in mezzo alla Francia, in un paesino sperduto, Un piccolo equivoco, hai pensato, senza importanza.
Anche agli imprevisti, ormai, sei preparato. E tu, tempo prima, l’avevi avvertita, Possiamo programmare quando partire e dove arrivare, ma non si può sapere se arriveremo a destinazione in moto, né quando torneremo a casa, Però, hai aggiunto, a Lisbona ci arriviamo. Pensi che lei abbia deciso di partire davvero per una frase così, per questo siete partiti insieme, voi due, Ma noi due cosa?, ti chiedi, e non puoi svegliarla con queste domande che non hanno senso viste le risate di oggi, il fresco della pioggia leggera che inzuppa la visiera della moto senza fermarti, senza fermarvi e senza mettervi paura, e che ti spinge a chiederle senza fermare la moto, Tutto ok?, chiedi senza parlare, solo con la mano sinistra, mentre correte veloci, e lei risponde silenziosamente, Ok!, unendo indice e pollice, e poi con la stessa mano rivolta in avanti te lo conferma, Vai, vai pure.
Lourdes è una Venezia senza gondole, senza canali, ma con gli stessi negozi di souvenir, madonnine sparse ovunque e un fiume rapido che la attraversa. Pensi che se non ci fossero le madonne sarebbe più bella, più vera, ma forse sarebbe una cittadina come tante, non così divertente da visitare, almeno per due come voi. E poi c’è il clima ideale, oggi: nuvole che fanno piovere una pioggerellina leggera e rinfrescante, nuvole che ingrossano piano acqua che scorre un po’ ovunque, nel fiume che la attraversa, nelle fontanelle sempre accese per riempire le bottiglie a forma di madonna, le ampolle, le taniche, fede e mercato che si scontrano facendo vincere (pare) sempre il secondo. Però in quel grande prato dietro alla basilica, quello attraversato dal fiume, trovi un po’ di pace e ancora risate, sì, come ve la ridete nonostante la pioggia, il pessimo hotel che sa di piedi, la moto che borbotta e singhiozza. Non sai fin dove arriverà, ma a Lisbona, in qualche modo, ci arriverete. E va tutto bene.
V Giorno
Va tutto bene anche oggi, come ieri quando avete lasciato la Francia, finalmente, per attraversare paesi più felici, più sorridenti. Neanche conti i chilometri fatti, né quelli che dovrete fare, la mattina parti e, dopo un’ora o due, vi fermate a prendere un caffè, a mangiare un churros appena fatto, e in quella pausa decidete la vostra giornata. Così ieri, tanto per provare, avete deciso per l’avventura: cercare un fiumiciattolo o un laghetto per riposare e dormire durante il giorno, per viaggiare la notte. Ci speravi, prima di partire, di viaggiare al buio, senza traffico, senza ressa, solo la strada deserta, qualche stella, luci di paesini sparsi per le colline e le pianure. Non l’hai neanche proposto tu, Sarebbe bello viaggiare di notte, ha detto lei, neanche ti avesse letto nel pensiero, Magari con le luci della moto spenta, ha aggiunto, perché lei vuole il buio e l’avventura più di quanto tu potessi desiderare. Infatti viaggiate insieme senza intoppi, decidete in fretta ma senza furia, e ieri, uscendo dall’autostrada un po’ a caso per raggiungere un fiume che la costeggia, mica l’avete trovato, quel fiume ma avete trovato un ruscelletto che affianca una strada di campagna, sì, e una piccola ansa sotto al livello della strada con un tavolo da picnic, l’erba alta e tutt’intorno campi dorati e gialli e verdi. E lì vi siete messi a mangiare un gazpacho pronto, il primo di una serie, e un panino ripieno di tutto fatto proprio da lei, di fronte a te, mentre ride, e pensi che quando le persone ridono sono più belle, ancora di più, sì, come quando l’hai vista tornare scalza dal ruscello, le scarpe gocciolanti in mano, perché le era scappato un cucchiaio mentre lo lavava e si è tuffata senza pensarci troppo, e te lo raccontava senza riuscire a trattenere le risate neanche quando ti diceva, L’acqua è freschissima, dovremmo proprio farci una passeggiata, e tu non c’avresti mai pensato.
Mentre ti togli le scarpe, lei già nel ruscello, di nuovo, ti chiedi, Possibile che sia solo il quinto giorno di viaggio?, poi entri e l’acqua è davvero freschissima, Che paradiso, pensi, e la vedi, lontana una decina di metri, la schiena curva mentre fruga il fondale alla ricerca di sassi, proprio come fai tu.
Mentre montate la tenda per dormire qualche ora, prima di ripartire col buio per vedere l’alba, pensi che sembrano tutti gesti rodati da anni di campeggio condiviso, di avventure comuni, voi due che stendete la tenda insieme, senza struttura, poi tu che infili i bastoncini pieghevoli mentre lei, dal lato opposto, si assicura che scorrano come si deve, senza incastrarsi. Due minuti e la tenda è montata, altri due minuti e siete sdraiati senza neanche i materassini, tanto l’erba è morbida. Avete ancora i vestiti addosso per ripartire in fretta prima dell’alba, dev’essere un riposino, niente di più, altri dieci minuti e il suo respiro si fa regolare, ogni tanto un sospiro assomiglia al russare dolce e leggero di un bambino che dorme un sonno profondissimo, mentre tu, sdraiato sul fianco, non riesci a dormire. Chiudi gli occhi ma ci sono tanti rumori, un motore di mietitrebbia distante, lo scorrere regolare del ruscello, il vento che piega l’erba attorno a voi e i rami sopra di voi che scuotono piano, e sono tutti rumori simili a musica se non fosse che sei troppo contento per dormire, Sto tornando, pensi, sono vicino, e non sei stanco affatto perché l’euforia ti ha fatto decidere di ripartire alle quattro e mezza, giusto il tempo di svegliarla, Buongiorno, è l’ora, le dici mentre si stropiccia gli occhi, giusto il tempo di piegare la tenda, legare strette le cinghie, imbacuccarsi con le cerate per non sentire troppo il freddo, e ripartire. Sembrate caricature di eschimesi, te tutto giallo e lei un po’ blu, un po’ nera, ma con le ciabatte ai piedi perché nelle scarpe c’è ancora l’acqua del ruscello.
È buio e la strada solo vostra, ma ti fermi quasi subito per chiederle se va tutto ok, se non ha freddo, Hai freddo ai piedi?, le chiedi, No, dice, solo freschino, ma andiamo!, e riparti. Dopo un’ora di buio il cielo schiarisce, da nero si fa blu, via via più chiaro, e nello specchietto la intravedi, vedi l’occhio sinistro che guarda dritto davanti a sé, con l’alba subito dietro, il sole che inizia a spuntare dal suo casco. Da quanto non vedi un’alba?, le chiedi, Da quando sono nata probabilmente, così vi fermate a guardarla, a prendere un caffè vestiti da eschimesi e poi ripartite, Manca poco, pensi, domani dovreste arrivare a Lisbona e quasi non ci credi.
Arrivate a Salamanca alle otto del mattino, e la città è deserta. Pochissimi i bar aperti, e i rari clienti sembrano appena usciti dalla discoteca, in attesa di andare a casa a dormire. Fa fresco, e la città vuota ti fa venire voglia di sederti su una panchina per guardare le tortore giganti che staccano rametti secchi dai cipressi, e scrivere. Glielo dici e lei non si scompone, sceglie una panchina ben assolata, si sdraia, e inizia a dormicchiare. Te vorresti scrivere di lei, di Salamanca tutta di pietra ocra, pietra chiara che si ossida col tempo creando facciate di chiese e palazzi multicolore, ma sempre tono su tono, omogenea, e vorresti scrivere dei discorsi fatti, delle cose mangiate e del modo che ha di guardarti mentre dici una cazzata, o ancora del modo che ha di guardarti mentre lei sta dicendo una cazzata, ma ormai sei già altrove, sei dove da un anno vorresti tornare, sei dove saresti dovuto tornare mesi fa con lei, con quella, ma poi lui se n’è andato, lei si è persa ed è saltato tutto, hai rimandato ancora, ancora, ma ora ci sei, sei quasi arrivato, con altre lei, con altri pensieri in testa, è tutto diverso tranne la città, lo sai, ferma al suo posto, ignara e disinteressata al tuo ritorno.
IX Giorno
Sei tornato dove volevi tornare, in qualche modo sei arrivato, nonostante tutto, nonostante sia tutto cambiato, solo la città è rimasta uguale, uguali i suoi colori, i suoi panorami, i sorrisi dei baristi quando in un portoghese incomprensibile chiedi dois tostas al formaggio. Appena siete arrivati, nonostante la fatica del viaggio, dei prevedibili imprevisti, dei cambi di programma in corsa, dopo una doccia l’hai subito portata su quel miradouro che pensi starebbe così bene sul tuo braccio sinistro, stai davvero pensando di tatuarlo, Questo o l’altro, le dici, e lei, subito, ti ha fatto la domanda che tu non ti sei ancora posto, Perché non te lo tatui, se lo vuoi?, Eh, hai risposto, solo un eh perché la risposta ancora non ce l’hai, hai solo pensato che ci starebbe bene, che non ci starebbe bene altro, o uno o l’altro, ma non hai ragionato su tutte le cose che ti trattengono dal farlo.
Lasci il discorso in sospeso, rimanendo in silenzio di fronte al sole che scende dietro i palazzi in lontananza, cambiando i colori a tutta la città, ma nel tuo silenzio pensavi a quel posto, a quei posti noti mentre il sole scendeva e il vento rinforzava facendoti sentire via via più freddo. Siete seduti di sbieco sul muretto e tu le dai le spalle, non è bello ma per stasera è giusto così, sei venuto qui anche per questo tramonto, e anche se senza di lei saresti venuti lo stesso, senza non sarebbe la stessa cosa, e vuoi guardare il tramonto senza farle vedere che sei emozionato, proprio come quando sei sceso dall’autobus, quando il tuo piede ha toccato la strada di quella città tanto attesa, e hai iniziato a spulciare il telefono per non farle vedere le lacrime, Non ancora, hai pensato, e hai finto di cercare un taxi per trattenerti dallo stritolarla, dal ringraziarla perché se sei arrivato lì, nonostante tutto, è anche grazie a lei. E adesso vuoi guardare il tramonto mentre pensi non tanto alla risposta più giusta, ma a quella più corretta. Aspetti che vi alziate per tornare a casa, ormai fa troppo freddo per rimanere ancora, e anche se lei resiste per farti stare un po’ di più, per te, lo vedi che ha freddo, e vi incamminate.
Non è il momento, le dici, non è ancora il momento per tatuarselo, Perché?, ti chiede, Non è ancora successo niente di così importante, qui, le dici, e vorresti aggiungere un elenco di quali sono le cose importanti per te, non solo un bacio ma anche un pianto, un ultimo incontro, una chiamata d’addio, cose così, ma non glielo dici e lei non indaga oltre, parlate d’altro mentre pensi che un po’ ti dispiace di averle dato le spalle per tutta la sera, avresti preferito guardarla alla luce del tramonto, un po’ come le altre sere ma quassù, con questo tramonto, dev’essere tutta un’altra cosa.
XVIII Giorno – Il ritorno
Devi riallacciare la cintura di sicurezza, a breve l’aereo inizierà a perdere quota per atterrare, lontano da dov’eri fino a poche ore fa, vicino a casa, e lei dorme appoggiata alla tua spalla, Che strana sensazione, poteva forse esserci congedo migliore?, ti chiedi, ma sai che la risposta è no, e non hai voglia di raccontarlo né di inventare finali alternativi perché qui, ora, mentre la hostess col culo largo ti sbatte sull’altra spalla ad ogni passaggio, mentre ti riallacci la cintura, pensi che non è finita. Il ritorno è solo una fase, una pausa tra un’avventura e l’altra, una pausa malinconica, certo, ma pur sempre una pausa. Quando sarai atterrato ti mancherà il viaggio, ti mancheranno la città, le spiagge isolate e il boato continuo dell’oceano che ti coccolava la notte tenendoti svegli, ma soprattutto ti mancherà lei che stringe i pugni e te li punta, a far finta di menarti per una battuta stupida. Ti mancherà tutto, e ci vorrà tempo per sopportare, di nuovo, la normalità, Un caffè, per favore, dirai, e un pezzo di focaccia. Così, un caffè per volta, tornerà ad essere tollerabile questa lingua, la routine, il lavoro, la dichiarazione dei redditi e i lavori in corso in autostrada, quelli che obbligano macchine e camion a rallentare fin quasi a fermarsi per cambiare carreggiata e procedere a passo di lumaca. Tornerà tollerabile, pensi, anche quel vuoto che ogni tanto senti quando per giorni non accade niente, non senti nessuno e semplicemente procedi a vivere, a mettere in ordine i piatti nel lavello e le cose nella testa, poi fai le lavatrici e pulisci la macchina per togliere lo strato di sabbia sahariana e i funghi accumulatisi sopra. Si tollera di peggio, pensi, figuriamoci queste cose qua, piccolezze. E tornerai ad attendere il prossimo viaggio, forse il prossimo ritorno, ti chiedi dove andrai e ti chiedi con chi, ma non puoi rispondere a nessuna di queste domande. Sai solo che accadrà ancora, in qualche modo, che tra una botta e l’altra la vita ti fa girare e girare, a volte con la sensazione di perdere l’equilibrio mentre rimani sempre in piedi, e girerai e girerai, magari non farai il giro del mondo, no, non ti interessa, però vedrai posti nuovi, conoscerai persone, e ci saranno altri ritorni malinconici, ci saranno addii, ma continuerai a girare fino quasi a immaginarti girare, adesso ti vedi da fuori e sembra quasi che tutto questo girare e girare sia un ballo, un ballo dei tuoi, un po’ fuori tempo e con molta poca grazia, magari a una sagra di paese scoperta per caso durante un giro in moto, e qualsiasi cosa sia, grazioso o meno, coordinato o no, è proprio un ballo, una strana danza da rave che si alterna a qualche ballo lento, a qualche samba solitario, a qualche gomitata involontaria del pogo della vita, a qualche pausa necessaria per recuperare ossigeno ma sì, tutto questo girare e girare e fermarsi e girare e attendere e girare di nuovo, tutta questa vita che procede e si ferma continuando comunque ad andare avanti, è tutta una danza, una danza che continua anche ora, ora che ti sei slacciato la cintura, ora che sei sceso dall’aereo, hai camminato fino alla stazione e ti sei seduto in questo regionale oggi stranamente pulito. Anche ora che sei fermo, seduto sul treno che non è ancora partito, in attesa di tornare a casa, anche ora stai danzando.
Epilogo?
Qualcuno direbbe che la fine di un viaggio è l’inizio di qualcos’altro, che si torna diversi da come si è partiti, e che è comunque bello tornare a casa dalle proprie cose, dai vestiti appesi agli stendini da due settimane, dalle piantine mezze morte di sete, dalla nonna che vorrà sapere tutto del tuo viaggio un po’ folle e un po’ assurdo, e in realtà quel qualcuno che dice queste cose non è proprio nel torto. Le diresti anche tu se non fossi tornato da un viaggio così, con una compagnia simile, da luoghi come quelli che hai visitato.
Eppure, adesso, un giorno dopo il ritorno, senti un vago senso di vuoto, Perché tornare?, ti chiedi, sdraiato a letto, respiri l’aria pesante di fine luglio, Perché non andare e non tornare più?, certo che il caldo non aiuta a stare in pace, hai provato a fare qualche faccenda per distrarti un po’, occupare il tempo e farlo passare più in fretta, ma le domane non riesci a fermarle, te lo hanno sempre detto, Pensi troppo, però te non riesci a smettere, Perché le cose belle durano sempre poco?, e chi lo decide?, e quando certe domande si accavallano così non hai il tempo di rispondere a una che subito, la successiva, bussa, toc toc, Perché non si può vivere in viaggio, almeno per un po’?, e non puoi fare niente per fermarle, come non hai il tempo di delimitarne una per provare a rispondere a quella non riesci di certo a pensare razionalmente ad una soluzione, un tappo alla cascata di domande. Così passano minuti che sembrano ore, finché non ti arriva un messaggio che ti salva senza neanche saperlo, È l’ultima cosa che voglio, dice, e poteva anche dire tutt’altro, poteva parlare del tempo, della temperatura dell’acqua o di un’unghia incarnita, davvero, poteva scrivere qualsiasi cosa per farti uscire involontariamente dal loop, eppure, ecco, ti ha scritto quella cosa lì, la risposta che non ti immaginavi, la risposta perfetta a una domanda che speravi retorica, nient’altro, e subito ti sei alzato, ti sei fatto una doccia e hai cominciato a piegare i panni stesi da due settimane, in attesa del tuo ritorno, per fare spazio alla lavatrice che caricherai a breve, poi hai spazzato per terra, hai pure spolverato la scrivania ricoperta di libri e documenti e, insomma, hai cercato di mettere un po’ d’ordine nel marasma perché ti serve ordine per provare a digerire il tutto, elaborare in pace il viaggio, il ritorno.
Quando sei soddisfatto ti siedi alla scrivania, davanti al tuo taccuino nero, sempre più gonfio di ninnoli incastrati tra le pagine, di fiori raccolti chissà dove, e soprattutto di parole che sulla carta acquistano uno strano spessore fisico, e pagina dopo pagina ingrossano il taccuino finché, dopo molte pagine riempite di parole, anche a distanza, guardando le pagine di taglio a taccuino chiuso, si possono intravedere le poche pagine bianche rimaste, sempre meno, sempre meno dopo ogni virgola, dopo ogni pensiero che tenti di tradurre in parola anche quando non riesci.
Stai per posare la penna, oggi è stata più dura del solito, senti ancora quel vuoto che non è il vuoto a cui sei abituato, stavolta, non è come aver perso un pezzo ma come una piccola virgola vuota, un piccolo vuoto che ha trovato il suo spazio lì, in te, da qualche parte, e cresce, Che strano, pensi.
Non credi di aver tradotto bene certe cose, e va bene così. Ripensi a tutto ciò che non hai potuto dire, un po’ perché non sei capace di descriverlo e un po’ perché i racconti, si sa, non sono cronache storiografiche, e devi sempre omettere dettagli, inventare compagni di viaggio, aggiungere avventure, travestire la realtà insomma, per evitare che qualcuno si riveda nei tuoi tu, nei tuoi lei, pensa che dramma se qualcuno ci cascasse, se qualcuna dicesse, Ehi, ma quella sono io!, pensa che figura che faresti!, ma non c’è pericolo, i tuoi migliori lettori, quelli che sanno tutto, non ci sono più, e i pochi rimasti non hanno bisogno di sapere chi siano i tu, i lei, i loro di tutte queste frasi senza fine che ingrossano il taccuino ed esauriscono la penna.
Riprendi il telefono e noti con piacere che bastava una piccola scossa, È l’ultima cosa che voglio, per farti tornare alla vita, a pensare al prossimo viaggio, a mettere un punto che non conclude niente, come se questo viaggio non fosse ancora finito, come se tutto questo, poi, potesse finire così. Per questo salti una riga, e scrivi rapidamente quello che non hai potuto scrivere altrove, altre volte:
No, non è la fine, è l’ultima cosa che voglio.
Se siete arrivati fino a qui, davvero, grazie.
Se avete ancora tempo da perdere, qui il racconto del primo viaggio a Lisbona.