La gioia avvenire – Stella Poli (Mondadori, 2023)

La gioia avvenire – Stella Poli (Mondadori, 2023)

Ci sono libri di cui non vorrei parlare. Di solito sono gli stessi libri di cui vorrei parlare a tutti, consigliarli, vorrei pure regalarli, in blocco, a tutte le persone care. Sempre, poi, appartengono a quel grande ma non grandissimo gruppo di “libri preferiti”, classifica non numerata in espansione inesorabile e inesorabilmente lenta. La gioia avvenire rientra in questa categoria.

E c’è entrata più o meno dalla prima pagina, dopo poche righe, anzi, ad esser precisi dalla settima riga, «una cosa raccontata è tracotante: esige, estorce quasi», che dopo averla letta mi sono dovuto fermare, e col lapis in mano ho segnato un piccolo puntino nel bordo bianco accanto alla frase, e per ricordarmi la pagina (che assurdità, era la prima), ho fatto l’orecchio alla pagina, in alto. E sono pochi pochi i libri così, in cui mi sento obbligato a fermare la lettura lì, alla prima pagina, dopo poche righe, alla settima appena, per fare subito un segno a matita e un orecchio alla pagina.

Di libri così vorrei parlare a tutti per dire quello che hanno lasciato a me, per quello che in me hanno smosso, sperando che smuovano qualcosa anche a chi lo consiglio, a chi lo regalo. Però, allo stesso tempo, non vorrei parlarne proprio perché di certi libri non mi sento in grado di, come forse direbbe l’autrice, capite?, non mi sento all’altezza. Come spiego lo scombussolamento, gli occhi lucidi, la percezione del dolore provato soltanto dalla lettura di un po’ di inchiostro su pagina, e come spiego la cognizione, sì, soprattutto la cognizione di una Voce? Non credo, davvero, di esserne in grado.

Per questo su certi libri non mi vedrete mai scrivere una recensione, una critica, niente di strutturato insomma. Ciò che posso fare è solo tentare di intessere anch’io, come posso, alla meno peggio, qualcosa attorno al libro, evidenziando certi particolari che di un testo, di una Voce, toccano e fanno vibrare certe corde, di me, spesso immobili.

In La gioia avvenire tante sono le cose che avrei dovuto dire, come tante (se non tutte) sono le pagine a cui avrei dovuto fare l’orecchio, dopo aver messo un puntino a qualche passaggio significativo, denso. Mi sono dovuto trattenere, come quando al liceo sottolinei le parti più importanti del libro di storia, e ti accorgi che finisci per sottolineare sempre tutto tranne avverbi e congiunzioni. Insomma, questo libro è, per me, un libro importante, e Stella Poli è, per me, un’autrice importante. Per quanto il mio giudizio sia valido solo nelle mie stanzette, nei miei rifugi, sono contento che ci siano, nella mia vita, un nuovo libro importante, una nuova scrittrice importante.

Per iniziare: La gioia avvenire e un suo fratello libro

Diciamolo subito: vedo così tante somiglianze di spirito tra La gioia avvenire di Stella Poli e Parla, mia paura di Simona Vinci che, anche se le Voci (e non semplici voci) sono diverse, l’ispirazione, quella sì, è la stessa. Un’ispirazione che non è uno spirito santo che casca dal cielo e ti colpisce, ignaro, mentre passeggi sui monti col tuo cagnetto giubbotto-dotato. No, qui l’ispirazione è lavoro dovuto all’urlo silenzioso di una necessità, necessità di elaborare e digerire un trauma… come se fosse possibile digerirle, certe cose, no, mi correggo: necessità di redenzione, quella di chi non ha detto no ma non ha mai pensato al sì, sì a cosa, poi?

Era come avessi dato un tacito assenso. (Non sapevo a cosa, questo è il punto, un punto strano da pensare, ora, che sono cresciuta, che faccio l’amore. Eppure non sapevo che facessero, due, in una macchina grande, nella campagna slavata della bassa. Non me l’ero domandata, peccando di confidenza. Di incoscienza, proprio, piena e maledetta.)

Sento, paragonando i due libri, la stessa pala che scava e scava a cercare un fondo che non c’è e che quindi continua, sempre più in profondità, a scavare, per trovare il punto giusto in cui fissare la messa a terra. E sento la stessa urgenza, che sappiamo essere cosa buona e giusta, nella scrittura, anzi forse l’unica cosa buona e giusta, l’urgenza di raccontare una storia, anche se, l’abbiamo capito, «una cosa raccontata è tracotante: esige, estorce quasi», però «la racconto perché non voglio affezionarmi al mio dolore».

Infine, e non è poco, sento l’urgenza di scavare in quella storia che necessita di essere raccontata, di quei personaggi che senza questa storia scritta, senza questo libro fatto di pagine bianche macchiate qui e là di nero, esisterebbero solo nella mente di chi ha vissuto certe cose, mentre così, accessibili a tutti, esistono per tutti. E se poi i personaggi sono pochi, e potrebbero anche non esistere, quattro o cinque?, quante storie simili, invece, esistono?

Basterebbe questo, comunque, a convincervi di leggerlo, il libro.

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Di spazi bianchi, necessità e contemporanei

Stella Poli in questo libro dimostra di non essere una scrittrice emergente, almeno non nel senso stretto. Una scrittura così matura e precisa non è una scrittura emergente. Con uno stile asciutto, cesellato, essenziale ma molto ricercato (nel senso di una ricerca della parola adeguata) dimostra inoltre di sapere quanto siano importanti le parole, appunto, il tessuto formato dal loro susseguirsi, le frasi, gli spazi bianchi.

Ecco, una riflessione sui frequenti spazi tra i paragrafi andrebbe fatta. Perché c’è così tanto bianco in queste pagine? Io credo, con non pochi ragionevoli dubbi, che quegli spazi rispondano a una necessità plurima. In primis, alla necessità di chi scrive di far riposare l’animo, e non tanto la mano, perché a scrivere son bravi tutti, anzi no, ma comunque scrivere una storia simile, la testimonianza di un trauma, la sua messa a terra, anche se “soltanto” immaginato, richiede spazio, aria, e lo spazio bianco è l’aria, l’ossigeno necessario a riprendersi dopo aver descritto il lembo sfrangiato e pulsante di una vecchissima ferita.

Poi, non secondario, quegli spazi sono una necessità per il lettore, per digerire (lui sì) certe verità, certe frasi che come schegge lo infilzano quasi senza che lui se ne accorga, e lo fanno sanguinare, metaforicamente, e lo fanno piangere, talvolta, questo per davvero, eppure sono solo schegge, minuscole, leggere e così pesanti…

Ma c’è anche un lettore particolare che potrebbe essere costretto a fermarsi più spesso, per lo più una lettrice, purtroppo, che ha vissuto «quasi» la stessa storia, ha ferite aperte della stessa fattezza, e così quegli spazi, quei vuoti non sono solo aree libere in cui rifiatare, ma tanti appigli a cui appendere momentaneamente la lettura, e nella pausa controllare le proprie, di ferite, riflettere alla luce di quelle paroline che precedono il bianco, dopo aver messo un puntino a bordo pagina, segnata con un piccolo orecchio in alto, e poi ricominciare a leggere e magari fermarsi, di nuovo, poco più in là, perché qualcuno il libro l’ha letto in un viaggio in treno (anche se, vi assicuro, lo rileggerà, lo sta già rileggendo con la calma che necessita, dopo aver placato l’urgenza di una fine), ma qualcuno, magari qualcuna, ci metterà settimane, mesi a finirlo.

Che poi, di nuovo, è quello che potrebbe succedere col libro già citato di Simona Vinci, e se ripeto il paragone è solo perché la Vinci rientra tra le mie autrici contemporanee preferite, adesso proprio lì, sullo stesso scaffale sopra al comodino dove c’è già lo spazio per La gioia avvenire di Stella Poli, altra ormai preferita. E sono pochissime, pochissimi, ve lo assicuro, i contemporanei che stimo, di cui vorrei parlare a tutti e non parlarne proprio, perché accanto a loro due, sullo stesso scaffale, per qualche motivo c’è Torquato Tasso, nessun altro, a buon intenditor.

(Sofferenza tra parentesi)

Vorrei anche parlare di dolore, ma mi rendo conto che ha già detto tutto lei, l’autrice, io non ho altro da aggiungere, vostro onore, dovrebbe proprio leggerlo questo libro, sa?, dovrebbe, si fidi di un nessuno. Mi sforzo di aggiungere qualcosa, perché forse qualcosa potrei essere in grado di dirla, ma quando ci si sforza alla fine si fa solo peggio, così non aggiungo niente, tento solo di evidenziare una piccolezza, una frasina:

(Non serve veramente a un cazzo di niente, soffrire, aveva ragione Pavese.)

Piccola frasina fra parentesi, eppure lapidaria, urlata in sordina, se forse fosse possibile urlare in sordina, e non si può dire che il libro sia tutto qui, altrimenti non avrebbe poi molto senso leggerlo dopo aver letto questa frase, però tanto del libro e dei suoi protagonisti è lì, in quella frase tra parentesi sospesa tra due spazi bianchi.

La gioia che verrà, chiudere ed aprire

Non entrerei nel merito della poesia di Fortini che presta il suo titolo a questo libro, anche se si dovrebbe. Lo lascio fare a voi, per questo ve la lascio in fondo all’articolo, nel caso ci fossero lettori curiosi. Prima, però, un accenno alle note del libro:

Il titolo del romanzo è il titolo di una poesia di Franco Fortini, che chiude Foglio di via (Einaudi, Torino, 1946) e riapre, in exergo, Poesia ed errore (Feltrinelli, Milano, 1959).

La gioia avvenire è una poesia che chiude una raccolta e ne riapre un’altra, la successiva. Una poesia che chiude e apre. Come la storia che ne porta il titolo, che chiude idealmente con l’accettazione di una redenzione impossibile e riapre, in conclusione al romanzo stesso, con una risata. Che forse non significa niente, ma per me, in un libro simile, con un simile titolo, significa tutto. La gioia che verrà, la gioia che deve venire, La gioia avvenire.


La gioia avvenire di Franco Fortini

Potrebbe essere un fiume grandissimo
Una cavalcata di scalpiti un tumulto un furore
Una rabbia strappata uno stelo sbranato
Un urlo altissimo

Ma anche una minuscola erba per i ritorni
Il crollo d’una pigna bruciata nella fiamma
Una mano che sfiora al passaggio
O l’indecisione fissando senza vedere


Qualcosa comunque che non possiamo perdere
Anche se ogni altra cosa è perduta
E che perpetuamente celebreremo
Perché ogni cosa nasce da quella soltanto

Ma prima di giungervi

Prima la miseria profonda come la lebbra
E le maledizioni imbrogliate e la vera morte
Tu che credi dimenticare vanitoso
O mascherato di rivoluzione
La scuola della gioia è piena di pianto e sangue
Ma anche di eternità
E dalle bocche sparite dei santi
Come le siepi del marzo brillano le verità.


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