Io e Roberto Ferrucci. Dove, come e perché
Ho conosciuto Roberto Ferrucci alcuni anni fa, durante un corso di scrittura creativa che un corso di scrittura creativa non era proprio. Era Ferrucci a tenerlo, e più che insegnare a scrivere (che, lo sappiamo, non è una cosa che si possa insegnare) ci aiutava nella ricerca di una nostra voce, sulle spalle di maestri che erano stati, in precedenza, i suoi.
Prima di quelle lezioni non avevo mai sentito parlare di lui. Come non avevo letto molto di Tabucchi e di Del Giudice. Eppure basta un incontro a cambiare un percorso, perché oggi Tabucchi è l’autore che più mi spezza la voce quando non lo leggo mentalmente, mentre Del Giudice è l’autore che mi fa venire i brividi, anche “solo” raccontando di un decollo o di una virata. Alla fine del corso, poi, avevo bisogno di sapere chi fosse Ferrucci-scrittore, così ho letto Cosa cambia, scoprendo il più bel romanzo mai scritto sui fatti del G8 di Genova 2001.
Mai avrei immaginato, in quei momenti, che mi sarei presto trasferito a Genova. Così, quando è successo, dopo essermi innamorato di Genova ho riletto Cosa cambia, e l’ho trovato ancora migliore di come lo ricordassi. L’ho riletto visitando i luoghi degli scontri, dei massacri, luoghi ormai ripuliti e apparentemente candidi. Con quella rilettura ho capito qualcosa di più di Ferrucci-uomo, e oltre a tenere con lui i contatti ho deciso di approfondire anche il Ferrucci-scrittore.
Da quella lettura omnia ne è nato un articolo per la rivista Trasparenze edita dalle Edizioni San Marco dei Giustiniani, che affronta il tema della “casa” per l’autore [lo potete leggere in fondo all’articolo]. Insomma, nonostante io non sia uno scrittore, ho trovato in Ferrucci un maestro che ha, oltre ai propri insegnamenti, il valore aggiunto di riproporre quelli dei suoi di maestri.
Questa intervista nasce, in qualche modo, tra i banchi di quell’aula in cui ci siamo conosciuti sei, sette anni fa, anche se è stata fatta ad agosto di quest’anno. Lo devo ringraziare per la disponibilità e per tutto il resto, e devo scusarmi per il ritardo nella pubblicazione.
Intervista schietta con Roberto Ferrucci
Trovo Roberto Ferrucci a Venezia, ad uno dei suoi bar preferiti, rivolto verso la riva e con le spalle all’ingresso. Sono passati molti anni da quando ci siamo conosciuti, lui maestro io allievo, lui a cavallo tra Italia e Francia e io vagabondo, sì, ma entro i confini nazionali. Parliamo per una buona mezz’ora prima di toglierci il dente dell’intervista.
Come autore sei pubblicato sia in Italia che in Francia, addirittura l’ultimo libro è uscito prima in francese e, solo anni dopo, in italiano, ampliato e rivisto. Oltretutto, hai cambiato tantissimi editori.
Sì, purtroppo sì, mi sarebbe piaciuto come i miei amici francesi averne uno soltanto, uno di riferimento. In Francia tutti gli autori e le autrici che conosco hanno da sempre un solo editore, al massimo due, e quindi possono davvero provare quel senso di “casa”. Altrimenti perché si chiama casa editrice? Qui purtroppo non è così, forse un po’ anche per colpa mia. A me piace l’idea di editore che dà Touissant, o Jean Echenoz nel suo libro Il mio editore.
In Italia domina l’idea che un editore debba esser per forza un grande editore, o pubblichi per i grandi o non esisti. Ovviamente non è così, lo dimostra l’attenzione che le librerie indipendenti hanno per gli editori indipendenti che fanno qualità, e non quantità, e poi dal fatto che la rinascita degli ultimi anni degli inserti culturali e letterari dimostra che le recensioni dei libri in questi supplementi sono sempre più spesso dedicate a libri pubblicati da piccoli editori. Però l’ambizione di dover essere pubblicati a tutti i costi da un grande editore rimane, nonostante oggi ci siano molti editori indipendenti bravi e appassionati
Pretendiamo di essere tutti grandi scrittori, no?
Sì, abbiamo un rapporto malato con la scrittura, con la lettura, con il libro e quindi con l’editoria di conseguenza, da noi quello che conta è lo status che acquisisci solo se vieni riconosciuto. Per me il momento più importante, bello, necessario e unico di un libro è quando lo stai scrivendo quel libro, non quando lo pubblichi. È anche per questo io ho tempi lunghissimi, perché a me piace stare dentro questo magma che all’inizio è informe e poi a poco a poco assume una sua identità, una sua autonomia di storia.
Lo vedo anche nei miei colleghi più giovani dove c’è questa tensione a dover far parte di un gruppo, a dover avere una certa visibilità, a dover scrivere con regolarità nelle pagine culturali, insomma esserci sempre anche da parte di scrittrici e scrittori bravi, credo però che poi questo comporti inevitabilmente che a rimetterci sia sempre il testo creativo, il libro, perché non gli viene dedicato il giusto tempo. La scrittura ha bisogno di tempi lunghissimi, lunghissimi, lunghissimi.
Anche quegli scrittori di talento, che riescono a scrivere romanzi in pochi mesi, quei testi se li sono portati dentro a lungo. Ma ormai leggo sempre più spesso libri che potenzialmente potevano essere grandi libri, ma che invece sono scritti con sciatteria, sono tirati via. Ho sempre sottolineato, nei miei laboratori, che nella scrittura conta “come” racconto una storia più della storia in sé, perché concentrandomi sul “come racconto” io posso scrivere un romanzo meraviglioso su questo porta salviette, mentre se la scrittura è banale, superficiale, anche il romanzo storico più coinvolgente del pianeta risulta spesso piatto, con una scrittura ovvia. E questo fa sì che non si veda l’identità di un’autrice o di un autore.
La voce?
La voce, la voce non c’è. Anzi sembrano un coro gospel in cui tutti hanno avuto lo stesso maestro e tutti cantano allo stesso modo. Bella questa del coro, non l’avevo mai detta.
In effetti lo stesso maestro ce l’hanno, pagato anche profumatamente.
E l’editoria ha una responsabilità rispetto a questa coralità. Sono stato poco tempo fa al Festival della Letteratura di Salerno, e in una conversazione tra Vincenzo Latronico e Raffaele Notaro, due giovani autori che apprezzo molto, lamentavano la mancanza di punti di riferimento, di maestri. Un po’ li capisco, e dopo aver letto il mio libro mi hanno detto di provare una benevola invidia perché io i maestri me li sono trovati. E lì è da una parte una questione di fortuna (la mia, di averli incontrati) dall’altra una questione di carattere, di generosità, quella che Tabucchi e Del Giudice avevano verso gli scrittori più giovani e che forse io non ho.
L’editoria tra Italia e Francia
E tornando al rapporto tra Italia e Francia, che differenze hai notato?
La differenza sostanziale è che in Francia non viene fatta alcuna differenza a qualunque livello tra piccolo e grande editore, sotto tutti i punti di vista. Anche nelle grandi catene ci sono librai e non solo venditori, impiegati, quindi librai che vengono assunti perché appassionati. È tutta la catena che funziona, l’editoria è seria.
E la serietà sta anche dei premi letterari, ce ne sono quattro o cinque che quando li vinci ti cambia davvero qualcosa nella vita, però sono strutturati diversamente, sono finanziati dallo Stato, e non come da noi, da privati, da imprenditori. Qui da noi i premi sono soprattutto pretesto per fare spettacolo, che potrebbe anche starci, però…
Forse è anche divertente, no?
Sarà anche divertente perché alle cerimonie finali a condurre è quasi sempre un comico, o comunque qualcuno legato al mondo dello spettacolo. Come se la letteratura non fosse sufficiente ad attirare l’attenzione della gente. La vedo più come una dichiarazione di debolezza, la presa d’atto che il libro in Italia è ormai considerato solo un passatempo. In Francia, paese che da molti anni frequento proprio per motivi editoriali, le giurie dei premi più importanti sono composte da esperti. Prendi per esempio il Goncourt, l’equivalente del nostro Premio Strega. Il giorno dell’assegnazione i giurati si riuniscono sempre nella solita sala del solito ristorante in centro a Parigi, deciso il vincitore, il presidente scende a piano terra dove radio e tv sono collegate in diretta, tutti i giornali presenti, e proclama il vincitore, che dopo qualche minuto arriva (i cinque finalisti sono tutti là nei paraggi), fa la sua bella conferenza stampa, brinda e ringrazia la giuria. Fine. Niente smoking né paillettes. Dal giorno dopo il libro vincitore, che già per via di far parte della cinquina finalista ha iniziato a vendere, inizia la sua scalata verso quella che è la cifra minima di vendite di ogni “laureat” al Goncourt: trecentomila copie.
Dal punto di vista del lavoro editoriale, in Francia ci sono differenze rispetto all’Italia?
Ci sono similitudini soprattutto tra gli editori indipendenti, francesi e italiani, perché la loro base comune è la passione. Ci sono somiglianze, come la qualità perseguita, la cura dell’oggetto libro. Gli editori indipendenti sanno che devono fare bei libri, sia dentro che fuori, e infatti per la collana che dirigo per Helvetia Editrice, i Taccuini D’autore, la qualità è importante. Stesso discorso vale anche per il mio attuale editore francese, La Contre Allée. Ma anche l’edizione di Cosa cambia pubblicata da Seuil – Ça change quoi – è bellissima, così come Sentiments subversifs, pubblicato dalla Meet di Saint-Nazaire.
E la collana Collirio?
Al momento è in pausa, perché in Antiga Edizioni ci sono stati grandi cambiamenti, ma l’idea è di riprenderla. Però quella è un’altra cosa, lì si vanno a ripescare i libri spariti. E qui viene fuori un’altra differenza tra Italia e Francia, perché quando pubblichi in Francia tu sarai sempre in catalogo perché loro prendono i diritti definitivi, oppure perché rinnovano di continuo. È una differenza abissale, perché Cosa cambia uscito in Francia nel 2010 da Seuil lo trovi, lo trovi ancora, è stato ristampato due volte, qui era sparito. L’ha dovuto riproporre, per fortuna, People.
Come ti sei trovato in People?
In People, ecco, da Pippo Civati credo di aver trovato finalmente il mio editore. Non solo è una persona che ho sempre stimato, anche e non solo dal punto di vista politico, perché uno che abbandona la politica per fare l’editore, ecco, dev’essere considerato un totem di questo paese.
People, per esempio (che non è soltanto Civati, ma anche Stefano Catone e Francesco Foti) ha capito la situazione dell’editoria italiana e si è adattata, ha sfruttato i social per creare una sorta di comunità attorno a tutti i titoli della casa editrice, una comunità che si basa su un rapporto di fiducia. People rappresenta una vera novità nel paesaggio editoriale italiano.
I libri di Ferrucci, da Tabucchi a Del Giudice
Parliamo dei tuoi libri e di Storie che accadono, la tua ultima fatica, libro dedicato al ricordo di Antonio Tabucchi. Se n’è parlato tanto, e sono riuscito con un po’ di fortuna a pubblicare una recensione su Maremosso. Quasi in tutti i libri l’io-narrante è Ferrucci scrittore-uomo.
Più o meno al 72,3%. Questa cifra è importante, ma la cambio sempre.
Più o meno, bene, questa me la segno. Hai già detto che non è semplice aprirsi così tanto alla pagina bianca quando si parla di cose personali, di intimità. Quant’è difficile poi parlarne direttamente col pubblico delle presentazioni, degli eventi?
Sai, non ho fatto tante presentazioni, un po’ per scelta un po’ perché dopo l’uscita sono dovuto partire, dopo due anni di stasi, per la Francia. Una residenza di scrittura organizzata da Sciences Po Lille e dalla Librairie Meura. Due mesi, saltando anche il Salone del Libro di Torino. Ma ho fatto quattro presentazioni là in Francia, con lettori italiani che vivono all’estero. Lì Tabucchi è molto amato. Però, come ti ho detto prima, quando scrivo non penso mai al dopo, alla promozione, alle presentazioni, scrivo e basta.
Quando il libro è uscito sapevo che, mancando io in pratica da undici anni dalle librerie, mi sarei aspettato di passare inosservato. Undici anni nell’editoria sono un’infinità di tempo, sono cambiati gli editori, i critici dei giornali e anche un paio di generazioni di lettori. Invece l’attenzione c’è stata ed è stata sorprendente. Ma anche se così non fosse stato, mi sarebbe interessato relativamente perché questo libro andava comunque scritto, che uscisse o meno.
È chiaro che i lettori sono importanti, e la soddisfazione è stata che tanti hanno scoperto i miei libri precedenti grazie a quest’ultimo. Poi qualcuno dice “beh, certo, racconti Tabucchi, facile così”, però poi se lo leggi credo la sua necessità sia evidente pagina dopo pagina. Ho anche sempre pensato di scrivere, con questo libro, un libro sulla scrittura.
Storie che accadono è nato su una proposta del mio editore francese, per una collana che si chiama Fiction d’Europe, dove a scrittori di ogni nazionalità viene chiesto di raccontare la propria idea di Europa. Da tempo volevo raccontare l’ultimo incontro fatto a Vecchiano con Tabucchi. Sono partito da lì, raccontando il più europeo degli scrittori italiani. Il limite era di 70.000, ma poi ho continuato a scrivere e dopo cinque anni è uscito in Italia, con molte più pagine, più storie. Completo, insomma, e sì, non mi aspettavo i lettori, non mi aspettavo la critica che sono stati davvero una piacevole sorpresa.
La memoria, i ricordi e i cimeli
Se dovessi trovare qualcuno totalmente digiuno di Tabucchi, come glielo consiglieresti?
Direi di leggere il mio libro! Lo dico un po’ scherzando, un po’ no, perché sono tanti ad avermi detto che dopo averlo letto gli è venuta voglia di rileggere Tabucchi o di leggerlo per la prima volta. E poi c’è un’altra cosa. Cosa succede quando noi in una giornata nostra qualunque, magari passando tra gli scaffali della Coop, ci viene in mente un passo della Morante o di Tondelli? Sono momenti ricorrenti, consueti, fanno parte dell’immaginario di ognuno, e sono come degli utensili che se ne vengono fuori da soli, quando ritengono sia il caso. Perché noi siamo fatti anche di quello che leggiamo, e quindi perché non rendere omaggio anche a questo aspetto, ringraziare ciò che abbiamo letto?
E poi: quanti hanno incominciato a scrivere dopo aver letto un autore in particolare? E perché non raccontarlo, non dirlo? Come se non fosse una cosa tua, o meno tua. Ecco, questi due libri (Storie che accadono e quello futuro su Del Giudice) sono un ringraziamento a due autori importanti per me e un riconoscimento di quanto i libri facciano per noi, di quanto ci diano, quanto ci formino.
Per concludere tornerei ai maestri, c’è un libro in arrivo, e dopo 11 anni di fatica sarebbe l’ora di chiuderlo e…
Prima della domanda ti faccio vedere alcune cose, perché tu sai che io ho bisogno di materiali, di oggetti su cui poggiare la mia narrativa [Ferrucci fruga in borsa e tira fuori un taccuino e un dattiloscritto]. Ecco, questo taccuino, già vintage negli anni ottanta, è uno di quelli che Del Giudice aveva comprato per il viaggio in Antartide. Prima della sua partenza sono andato a trovarlo, me l’ha regalato e guarda com’è ancora perfetto. E poi c’è questo dattiloscritto originale di un suo articolo uscito su Paese Sera.
Wow. Questi sì che sono cimeli.
Sì. Inoltre ho ore ed ore di conversazioni registrate con lui, e le registrazioni di molte presentazioni. Per Staccando l’ombra da terra, ripubblicato dal Corriere della Sera a un anno dalla morte di Del Giudice, ho scritto una nota biografica con le sue parole, anche grazie alle nostre chiacchierate. È una nota in cui lui stesso presenta i suoi libri.
Amici e maestri
Torniamo ai maestri. Tu hai incontrato due maestri notevoli, e non tutti hanno la fortuna di incontrarli.
Ne ho incontrati anche altri, molti altri, ma il rapporto con Del Giudice e Tabucchi era speciale. Inoltre, quelli erano anni diversi. Oggi invece c’è un paradosso: è talmente facile raggiungere gli scrittori che improbabile poi nasca un’amicizia, è tutto più superficiale. Come ho conosciuto Del Giudice? Perché Billy Lamarmora, libraio della Libreria Don Chisciotte di Mestre, prima che uscisse Atlante Occidentale, disse “presentiamolo”, e mi chiese di dargli una mano. Lì ho conosciuto Daniele che poi mi ha fatto conoscere Tabucchi. Erano tempi diversi, c’era un contatto umano che oggi non c’è più. Ma, quindi?
Ecco, ahaha, quindi quelli che incontrano il maestro Ferrucci, cosa succede?
Non saprei. Io forse lo faccio dal 2002 , a Padova, col laboratorio di scrittura creativa all’università, e che dà tantissime soddisfazioni. Agli studenti faccio leggere i loro libri e quelli di altri, cerco di trasmettere ciò che loro mi hanno insegnato, che ho fatto mio e quindi con le mie varianti. Gli studenti sembrano apprezzare, lavorano, leggono, scrivono. Alla fine non so cosa resta, sei tu che dovresti dirlo.
Io qualche insegnamento potrei riportarlo, non so, che dici?
Ma sì, potresti.
Lo farò, prima o poi. Però la cosa più importante dovresti dirla tu.
La cosa più importante è la più banale, cioè leggere. Poi però è come leggi, è come scegli i libri, come li annusi che conta. Ecco, una cosa che io cerco di consigliare è di non leggere casualmente, non leggere senza conoscere e capire quanto importante è l’editore, la copertina, la collana, insomma imparare davvero a leggerlo a 360 gradi il libro, tutto conta.
E poi, soprattutto, l’importanza del come e non il cosa. Non è un caso che tutti i miei esercizi al laboratorio siano consegne apparentemente banali, tipo “cosa vedo dalla finestra”, ecco. Perché voglio leggere come racconti, non cosa racconti. Non mi interessa dare il decalogo del buon romanzo, che non esiste, ma di far fare un percorso ciascuno dentro la propria scrittura, la propria voce, cioè tirandola fuori, la propria voce, a prescindere dal destino futuro di ciascun studente. Ed è bellissimo vedere il percorso di ciascuna scrittura che parte a ottobre in un modo e arriva a maggio che è altro. A volte molto altro. Infine, spero di trasmettere bibliografie ideali, libri importanti.
Quella la aggiungerò in coda, perché ho scoperto cose che, pur essendo un lettore forte, mi erano sfuggite. Grazie.
Bibliografia consigliata da Roberto Ferrucci
- Italo Calvino, Lezioni americane
- Pier Paolo Pasolini, Scritti corsari
- Antonio Tabucchi, Di tutto resta un poco
- Antonio Tabucchi, Gli zingari e il rinascimento
- Daniele Del Giudice, In questa luce
- Daniele Del Giudice, Lo stadio di Wimbledon
- Jean-Philippe Toussaint, L’urgenza e la pazienza
- Jean Echenoz, Il mio editore
- Mauro Covacich, La città interiore
- Emmanuel Carrère, A Calais
- Asli Erdogan, Neppure il silenzio è più tuo
- Simona Vinci, Parla, mia paura
- George Perec, Tentativo di esaurimento di un luogo parigino