Il racconto di una prigionia disumana, un excursus sui metodi necessari a sopravvivere (o tentare di sopravvivere) in una prigione simile. È questo Il libro del buio, opera basata sulla testimonianza di un ex detenuto della prigione di Tazmamart, prigione segreta con lo scopo di punire, rinchiudere e uccidere traditori della monarchia e detenuti politici. In primo luogo, bisogna decidere se salvaguardare la mente o il corpo: le poche energie che arrivano dall’acqua sporca e dal pane secco che le guardie forniscono vanno centellinate, misurate e distribuite nel migliore dei modi.
Salvare la mente per salvare il corpo
Il protagonista decide di impegnarsi per avere salva la ragione. Il corpo, inevitabilmente, si sarebbe deteriorato comunque al buio, in una cella così minuscola che pareva una fossa, una tomba, e senza servizi igienici se non un buco sul pavimento. Per quanto difficile, invece, la mente può essere salvata, e non, come ci si aspetterebbe, ricordando la vita prima, la vita fuori, che è la cosa più pericolosa. Ma dissociandosi da tutto ciò che si è vissuto in precedenza, scacciando i ricordi più felici fino ad eliminarli, se possibile. Da lì parte la salvezza:
Resistere a ogni costo. Non cedere. Chiudere tutte le porte. Indurirsi. Dimenticare. Svuotare la propria mente del passato. Fare pulizia. Non lasciare nulla nella testa. Non guardarsi più indietro. Imparare a non ricordare più. Come fermare questa macchina? Come fare una selezione nella soffitta dell’infanzia senza perdere completamente la memoria, senza cadere nella follia? Occorre chiudere a chiave le porte anteriori al 10 luglio 1971. Non solo non bisogna più aprirle, ma è imperativo dimenticare quello che nascondono.
La vita prima di quel giorno fatale non doveva più riguardarmi.
Ma anche nel gruppo si trova, più che in se stessi, la forza di resistere. Nonostante le celle siano singole e minuscole, i detenuti riescono a comunicare, a mantenere unito il gruppo, al punto che ognuno ha assunto un compito diverso. C’è chi tiene il tempo, un uomo che inspiegabilmente riesce a dire sempre l’ora esatta, e così il giorno, il mese, l’anno. C’è chi sa tutto il Corano a memoria, e oltre ad intonare il canto nei funerali riempie i vuoti, i silenzi accecanti del buio con parole note a tutti.
Il compito del narrare ne Il libro del buio
Anche il protagonista ha un ruolo. Figlio di un amico del re, una via di mezzo tra buffone e poeta di corte, anche lui ha avuto modo di leggere, di studiare e, come il padre rinnegato, ha appreso molte poesie a memoria, molte storie. Il suo ruolo, nel gruppo di detenuti, è quello del narratore. Un ruolo invocato spesso dagli altri perché le storie, soprattutto quelle che non parlano di te, possono farti viaggiare, possono farti uscire dalla fossa in cui sei rinchiuso e farti diventare, talvolta, anche Marlon Brando.
Io ne ho bisogno. Sogno di sentire delle parole e di farmele entrare nella testa, di vestirle di immagini, di farle girare come una giostra, di conservarle al caldo, e di ripassare il film quando sto male, quando ho paura di precipitare nella follia. Dài, non essere avaro, racconta, su, inventa se vuoi, ma dammi un po’ della tua immaginazione.
Non è più per passare il tempo, è per non crepare, sì, ho il presentimento che se non sentirò più le tue storie, deperirò.
L’esempio della madre
Eppure, nonostante tutte le tecniche solitarie e di gruppo per sopravvivere alla follia, è un pensiero ricorrente che dà al protagonista la forza di vivere: il pensiero della madre, delle sue fatiche, della sua stoicità di fronte ad un marito assente e disinteressato. È per lei, e grazie a lei, che il prigioniero trova forze che non sa di avere.
Eri grandiosa. Cacciavi quell’uomo con fermezza. Non cedevi né vacillavi mai. La tua forza di carattere era la tua libertà. La tua volontà di vivere con dignità ti rendeva più bella, più forte.
O mamma, ti sento triste. Pensa che sono in viaggio, scopro un mondo insondabile, scopro me stesso, imparo, ogni giorno che passa, di che stoffa mi hai fatto. E te ne sono grato.
Il libro del buio, un libro mai vecchio
La capacità di Tahar Ben Jelloun di descrivere un simile stato di deprivazione è, al contrario, difficilmente descrivibile. Alcune scene, alcune considerazioni, fanno immaginare di essere noi stessi, i lettori, rinchiusi dentro ad un buco.
Di prigioni simili ne esistono ancora, e forse non smetteranno mai di esistere. Per questo Il libro del buio, nonostante l’inguaribile mania tutta italiana di modificare a proprio personale gusto i titoli di film e libri, è un libro da leggere, da diffondere, un libro denso su cui non smettere mai di discutere.
“Silenzio” di Tahar Ben Jelloun
Per finire, ecco una poesia in versi liberi contenuta all’interno de Il libro del buio.
In realtà c’erano diversi tipi di silenzi:
quello della notte. Ci era necessario;quello del compagno che ci lasciava piano;
quello che osservavamo in segno di lutto;
quello del sangue che circola lento;
quello che ci ragguagliava sugli spostamenti degli scorpioni;quello delle immagini che ci passavamo e ripassavamo nella mente;
quello delle guardie che tradiva stanchezza e routine;
quello dell’ombra dei ricordi bruciati;
quello del cielo plumbeo di cui non ci perveniva quasi nessun segno;
quello dell’assenza, l’accecante assenza della vita.Il silenzio più duro, più insopportabile, era quello della luce.
Un silenzio potente e molteplice.
C’era il silenzio della notte, sempre uguale,
e poi c’erano i silenzi della luce.
Una lunga e interminabile assenza.
[…] un anno fa rimasi molto colpito da un suo libro acquistato per caso ad una bancarella. Quel testo, Il libro del buio, mi aveva svelato uno scrittore in cui non mi ero mai imbattuto. A distanza di un anno, la stessa […]