Il fattorino

Il fattorino

Costa poco ma è in ritardo di mezz’ora. Aspetto. Non lo chiamo, non avrebbe senso mettergli fretta. Ho fame, ma potevo cucinarmi qualcosa; perché questa pigrizia? Ah, già: mi hanno ricaricato la carta. Comincia proprio oggi quel periodo di ricchezza che dura giusto una settimana. Non di più. Si mangia in giro, si ordinano pessimi pasti a domicilio. Poi finiscono i soldi, finisce la magia, e si torna a consumare cose scadute dalla dispensa. E per quanto le cose scadute siano più buone del cibo a domicilio, vincono gola e pigrizia. Eppure sono in ritardo di 40 minuti, che fare? Assolutamente nulla: la buona azione quotidiana è aspettare. Non mettergli fretta. Sono pagati poco, sono sicuramente stressati. Io invece sono ricco, anche se solo per una settimana. Allora, con le mani in mano, aspetto.

E aspetto ancora. Sono un’ora in ritardo. Adesso basta davvero! Ho fame, io, una vita da mandare avanti. Non posso mica vivere nell’attesa; che sia di una pizza o della felicità poco importa. Aspettare è fastidioso. Così chiamo, e colui che risponde al telefono della pizzeria Bello Vesuvio è un indiano. Non lo capisco molto. Dice qualcosa come “siamo lontani, è partito ma siamo stanchi”. Non capisco, forse ha detto tutt’altra cosa ma lo sento stanco per davvero. Chissà che vita è la sua… La voce nel telefono si schiarisce, tossicchia e dice “ti do il numero del ragazzo”. Mi detta il numero con non poche difficoltà ed io, scocciato, chiamo il ragazzo.

Dopo 5 squilli risponde un ragazzo col fiatone. Gli chiedo dove sia finito, e risponde che al 201 di Via Pré non risponde nessuno. Respira male, penso. Gli spiego che l’indirizzo è sbagliato. Anche le macchine sbagliano, oppure ho sbagliato io? Continua a respirare male. Tossendo risponde “arrivo” con accento indiano, e pochi secondi dopo suonano al campanello. Non chiedo chi è, apro subito. Deve essere il ragazzo.

Un tonfo, è il portone d’ingresso che si chiude. Apro la porta di casa ed aspetto che il ragazzo salga i 4 ripidi piani di scale. Sono scale vecchie, un po’ rovinate; l’altezza varia da uno scalino all’altro, e non puoi arrivare in cima senza le gambe pesanti. Per fortuna che è un ragazzo quello con le pizze. Non gli vado incontro, lo aspetto sull’uscio. Eppure non arriva. Sento ansimare come quando dopo uno sforzo molto intenso si finisce il fiato, e respirando a bocca aperta il petto si gonfia e si comprime in fretta. L’ansare si avvicina, ora sento pure i passi che si fermano all’improvviso. Conto fino a dieci, poi accosto la porta dietro di me e decido di andargli incontro. Faccio due scalini, sento ansimare e vedo un uomo con lo zaino portapizze. Ha la pelle scurissima, il casco in testa da cui spunta qualche capello bianco. Ci fermiamo sulle scale uno di fronte all’altra, lui non mi guarda neanche. Mi mostra lo scontrino con l’indirizzo sbagliato (colpa mia? sennò di chi?), poi dopo qualche respiro affannoso mi consegna le pizze. Di solito do una mancia, auguro buon lavoro. Questa volta, invece, sono rimasto muto. Ho chiuso la porta mentre continuavo a sentire respirare forte; l’uomo doveva essere ancora fermo sulle scale. La pizza l’ho mangiata in fretta, controvoglia. Ne ordinerò altre, ne sono sicuro. Potrei dire, parafrasando molti altri (e migliori prima di me), che questa è la mia ultima pizza a domicilio; ma di ultime pizze simili ce ne sono già state tante. Che sia questa la svolta non credo. Quell’uomo, però, quel padre mi ha toccato qualcosa. E forse sarà retorico, ma l’unica cosa cui riesco a pensare è la mia stupidità di ragazzo.

 

C.B.A

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