Di libri che parlano di libri, della scrittura e degli scrittori, ce ne sono tanti. Non per questo si devono bocciare in partenza; essendo però la tradizione così ampia, non è poi difficile smontarli uno ad uno. Ma, calmiamoci. Prima di stroncare o promuovere un libro bisogna averlo letto. Poi, dopo aver abbozzato qualche prima impressione a caldo, si deve riflettere sul libro appena letto. Questo, almeno, se il libro si è riusciti a finirlo.
Il romanzo di Musso è un libro decente. E come si dice nel libro stesso, un giudizio simile può avvicinarsi sia alla stroncatura sia all’elogio. In questo caso, credo che il giudizio sia letteralmente “decente”: né molto bello, né molto brutto. Insomma, non il miglior libro dell’anno, ma lungi dall’essere il peggiore. E tutto questo, perché?
La trama è interessante. Una particolare isola immaginaria della Francia, che potrebbe esistere davvero, è scossa da un omicidio; sull’isola abita un grande scrittore che da vent’anni non scrive né rilascia dichiarazioni, e un aspirante autore accetta un lavoro nella libreria del paese con l’intenzione di conoscere l’autore, il suo idolo, per avere un giudizio sul proprio manoscritto. Questo è l’inizio dell’intreccio, che poi si complica (il che è positivo, perché da apparentemente banale si dota di qualche spunto di originalità). I personaggi principali sono ben abbozzati: Nathan Fawles, vincitore del premio pulitzer che vive una vita isolata in una casa “da scrittori”, è ciò che molti aspiranti scrittori vorrebbero diventare. Per questo il giovane Raphael Bataille, manoscritto alla mano, vuole conoscere il suo idolo; vuole diventare come lui, nonostante le sue stranezze e i misteri che lo avvolgono. Perché nonostante le nefandezze di cui un autore si può macchiare, i libri restano puliti; o almeno, secondo alcuni personaggi.
Tralasciando gli altri personaggi (tra oscuri librai e una giornalista folle che rinsavisce), c’è qualcosa che non va nel libro. Sembra che l’intenzione di parlare della scrittura sia una motivazione forzosa del romanzo; cioè la trama del romanzo e la riflessione sul romanzo, che il libro propone, potrebbero essere scisse. Cosa rimane delle innumerevoli citazioni colte a tema scrittura, alla fine della lettura? Rimane un epilogo in cui un autore si traveste da autore-narratore Altro per spiegare le motivazioni del proprio libro (come se fosse scritto da un omonimo), e le sue riflessioni ultime sulla scrittura. È un romanzo attraversato da riflessioni sulla scrittura; ripeto, attraversato. Certe riflessioni attraversano il romanzo e passano oltre, quindi esso potrebbe esistere anche senza certe riflessioni. E forse, trasformandosi in un thriller puro, poteva essere classificato come “ottimo thriller”. O forse no. Ma analizzando ciò che è, senza considerare l’infinito mondo dell’immaginabile, qualcosa a me stona.
Se anche riuscissi a far passare le infiltrazioni riflessive, non riesco ad accettare le numerose strizzatine d’occhio rivolte al lettore. Si dice pure nel libro: “è vero, il lettore è importante. Si scrive per lui, siamo d’accordo, ma cercare di piacergli è il miglior modo per far sì che non ti legga”. Musso, in questo libro, propone l’idea che non si debba scrivere per piacere al lettore; eppure, nella pratica, fa quasi sempre l’opposto. Dico quasi, perché solitamente non muoiono certi protagonisti e per fortuna, in questo libro qualcuno muore. Ma in generale, certe “strizzatine” percorrono tutto il libro e sì, lo fanno apparire meno bello di quello che, forse, è.
In conclusione: il libro è piacevole, con tanti “ma”.